29 giugno 2012

Liberarsi dalla timidezza

 
Spesso i giovani artisti italiani hanno un timore reverenziale verso il loro passato. Atteggiamento che non li aiuta a maturare un linguaggio pieno e poi definitivamente autonomo. Non è il caso di Francesco Carone. Nella sua ultima mostra al Palazzo Pubblico di Siena il vis-à-vis è con i maestri del Gotico. Una sfida giocata dall'artista con piglio e acume. E vinta [di Ludovico Pratesi]

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Qual è la maniera più corretta di impostare un dialogo tra l’antico e il contemporaneo? Attraverso quali modalità l’opera di un artista può permettersi di mettere in gioco un capolavoro del passato, offrendone una lettura che scaturisce da un punto di vista laterale ma significativo? È giusto parlare di confronto sul piano della continuità di linguaggi o piuttosto di rottura con canoni e tradizioni per proporre nuove chiavi di lettura del passato attraverso un presente disarmonico e disturbante? Con Rendezvous des amis Francesco Carone ha accettato una sfida da far tremare i polsi: allestire una mostra personale nelle sale storiche del Palazzo Pubblico di Siena, affrescate da maestri del gotico come Simone Martini, Duccio da Buoninsegna, Ambrogio e Pietro Lorenzetti.

Il giovane artista ha scelto di costruire la mostra come un itinerario di senso attraverso quattro opere, che sono frutto di un incontro atemporale improntato su una possibile continuità tra Carone e i suoi colleghi del passato, che l’artista ha strutturato sull’utilizzo di un linguaggio comune, legato allo slittamento semantico del simbolo. L’artista non si è relazionato con gli affreschi nel loro insieme, ma ha focalizzato la sua attenzione su alcuni dettagli, dei quali ha modificato il senso iconologico per attribuire loro un valore di dispositivi dello sguardo. Ogni opera si configura quindi come un veicolo di attenzione, un invito a selezionare un punctum, una lente di ingrandimento dalla quale rileggere e reinterpretare l’intero ambiente.

Un’operazione ambiziosa ma perfettamente riuscita, soprattutto grazie alla scultura Rendezvous des amis realizzata per la sala del Mappamondo, che dà il titolo all’intera mostra. Si tratta di un anello girevole bianco in acciaio che attraversa l’intero spazio, come una sorta di cannocchiale essenziale e discreto, che Marinella Paderni, curatrice della mostra, definisce “un congegno dello sguardo”. Unico elemento che viene a turbare la candida circolarità è un serpente argentato, che avvolge le sue spire intorno al cerchio: una presenza che conferisce all’opera un connotato simbolico inquietante, riferibile sempre ad un repertorio immaginifico classico, lo stesso degli affreschi che rivestono la sala.

Si tratta di una figura che ci fa riconoscere tutta l’italianità della ricerca di Francesco Carone, in grado di attribuire a questa rigorosa macchina ottica un senso sottile ed incisivo: un’eredità che l’artista interpreta come un patrimonio al quale attingere, con coraggio e rigore. Non citazione dall’antico ma affiliazione con l’antico, corroborante humus sul quale instaurare un dialogo alla pari, nel reciproco rispetto. Apprendere dai propri maestri per superarli, in poche parole, senza il timore reverenziale che gli artisti italiani delle ultime generazioni hanno spesso dimostrato nel confronto con luoghi storici, dove in genere l’opera contemporanea si inserisce nel contesto senza però prendere posizione. Timidezza? Paura di non essere all’altezza? Quest’opera non è né timida né paurosa, ma si impadronisce dello spazio in senso armonico, come il saggio partecipante ad un dotto simposio che osserva e ascolta in silenzio gli altri convitati esibirsi in dotte citazioni, e da ultimo prendere la parola per tirare le fila dell’intero discorso. È un lavoro autorevole perché si propone di affermarsi utilizzando l’eredità del gotico senese in un senso non narrativo, ma evocativo. Un’intuizione che conferma l’evoluzione del pensiero di Carone, sempre più consapevole della propria forza non esibita, ma discreta. E per questo così potente.

2 Commenti

  1. è una delle cose meno invasive eppur più invadenti che mi sia capitato di vedere, un oggetto che si appropria della tua visione senza modificarla, un pò come guardare dal buco della serratura, il soggetto resta al di là ma il gusto cambia…

    bravo 🙂

  2. Premetto che relazionarsi con un luogo così è arduo, trovo quest’opera non il superamento di una timidezza verso un passato glorioso, neanche dipendenza, ma parassitismo. Quest’opera senza il contesto ha solo il valore del materiale con cui è realizzata, qui l’unica cosa che era, è e sarà arte anche in futuro è il luogo in cui è installato questo cerchio con serpente in argento.

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