02 febbraio 2017

Nell’arte c’è solo l’uomo

 
Giuseppe Iannaccone presenta parte della sua collezione alla Triennale di Milano, riportando luce e dignità su un ventennio disgraziato della storia. Ma non dell'arte

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“Italia 1920-1945 – Una nuova figurazione e il racconto del sé” è la mostra che mette in scena novantasei opere della Collezione dell’avvocato Giuseppe Iannaccone, e che restituisce una nuova luce su quel ventennio che in Italia, e in Europa, si configurò come uno dei più neri della storia. Una nuova luce tramite l’arte, attraverso una serie di quadri “da appartamento” che nel corso dei decenni che ci hanno separati dalla fine del secondo conflitto mondiale sono stati impolverati, quasi dimenticati, rigettati per il loro essere stati concepiti nel pieno del Fascismo. 
E poco è importato se i protagonisti di questo “Realismo Espressionista” si erano schierati verso la dimensione umana e poetica della pittura; niente superuomini alla Sironi, nessun ritorno all’ordine alla Carlo Carrà, nessuno sconfinamento al Novecento sarfattiano, anzi. Eppure l’onta della dittatura, il fatto di essere vissuti all’ombra di altrettanti “rigettati” – ma divenuti più celebri – ha fatto sì che sugli anni Trenta italiani del secolo scorso calasse un sipario silenzioso.
Giuseppe Iannaccone ha iniziato questa collezione ufficialmente nel 1992, in un momento di difficoltà personale, avvicinandosi a questi pittori (da Birolli a Mafai, da Scipione a Guttuso) proprio per il “sentire comune” in mezzo alla tempesta, perché «Quello che mi interessa dell’arte è il racconto che fa dell’uomo».
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Spiega, ancora, Iannaccone ad Alberto Salvadori (curatore dell’esposizione insieme a Rischa Paterlini) nel bel catalogo Skira che accompagna la mostra: «Dallo studio mi ero fatto questa idea: caspita, tutta questa fama per Sironi! Intendiamoci, io amo questi artisti, però mi chiedevo come facesse la gente  a non riflettere minimamente sul fatto che l’arte dovrebbe essere libertà».
Da qui inizia l’affiancamento a Corrente, scoprendo il gruppo fondato da Ernesto Treccani e di cui faceva parte Renato Birolli, pittore di origine veronese che a Milano aveva trovato la sua America nonostante le sventure dell’epoca, e che forse è il pittore che Iannaccone sente più vicino. 
Tra gli amori dell’avvocato però c’è anche il gruppo romano della “Scuola di via Cavour”, che altro non era che il trio composto da Mario Mafai, Antonietta Raphaël e Scipione, amico intimo della coppia che passava con loro le giornate sul terrazzo dell’appartamento, ascoltando i resoconto della Raphaël di ritorno da Parigi (che dunque conosceva bene l’ambiente internazionale dell’epoca) e che era solita dipingere alle luci dell’alba.
E Iannaccone, Scipione, lo racconta quasi incantato: della sua vita sa tutto, e il primo quadro che comprò, nel 1987, fu proprio del nipote dell’artista, tale Claudio Bonichi. 
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In mostra alla Triennale, in un allestimento speciale realizzato dallo studio d’architettura Oblò, di Scipione si passa dallo splendido e luminoso Villa Corsini, olio su tavola del 1929 e canto d’amore alla Roma barocca che l’artista viveva insieme all’amico fraterno Mafai, e si arriva al Profeta in visita a Gerusalemme: un dipinto piccolo, rosso e bruno, dove cavallo e cavaliere guardano verso il divino, nell’ultimo testamento lucido e lirico prima della morte per tisi che lo strapperà alla vita a soli 29 anni. In mezzo a loro, quella che l’avvocato definisce la sua opera d’arte preferita: Natura morta con piuma. Un quadro erotico, carico di allusioni sessuali non celate; un quadro che rappresenta la gioia di vivere, dove è ben lontana la “pace dei sensi”, ma che tradisce una profonda consapevolezza della propria avventura umana: la carta di picche, un tre, sul lato sinistro della tela, racconta del proprio destino segnato. 
E poi c’è Ottone Rosai, che apre idealmente la mostra raccontando dell’epoca: ne L’Attesa del 1920 quattro uomini seduti ad un tavolo sono isolati dal contesto. La prima guerra mondiale da poco è finita, e da lì a due anni si marcerà su Roma. Difficile immaginare anni più incerti, carichi contestualmente di speranza e pessimi presagi: lo raccontano benissimo anche le palette: marroni, grigi, ocra, colori di cenere che riflettono sia le difficoltà di Rosai nella sua quotidianità, nelle sue vicende personali di uomo e d’artista, sia nel tempo sospeso, come avviene nella Conversazione del 1922: anche qui un gruppo di tre uomini soli, e isolati in un dipinto ghiaccio. 
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Ma parliamo ora, appunto, un po’ dell’allestimento: non aspettatevi un white cube. La Triennale di Giovanni Muzio, edificio del 1933, è il luogo privilegiato invece per ripercorrere quasi filologicamente anche il modello espositivo che poteva esserci in quegli anni, alla Società per le Belle Arti (la “Permanente” di Milano), piuttosto che alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma: cavalletti, quinte, associazioni di opere e vicinanze. Quasi un piccolo labirinto per non disperdere l’energia di queste produzioni che però, nelle dimensioni, sono come dicevamo sopra quadri da appartamento. 
«Non voglio dirlo troppo forte, ma qui stanno decisamente meglio che a casa mia; dialogano, si rincorrono, si parlano», dice l’Avvocato, perché questa collezione è quella che vive tra le mura domestiche, mente il suo studio vicino San Babila ospita opere più recenti con nomi importanti dell’arte contemporanea internazionale, tra gli altri: Kara Walker, Kiki Smith, Regina José Galindo, Lugi Ontani, Charles Avery, Paola Pivi, Juan Munoz, Shirin Neshat fino a giovani come Francesco Gennari. Ma qui, in Triennale, e a casa sua la conversazione è anche con la storia; con rimandi Cubisti, Espressionisti, Impressionisti, con i colori dei Fauve, con la mitologia che insisteva un poco nell’arte di regime ma che – per esempio – ne I Dioscuri di Aligi Sassu è completamente ribaltata: non esseri combattivi ma contemplativi; uomini che nascono nudi davanti al Creato e che poi devono affrontare la società, come dichiarava lo stesso artista nella sua autobiografia. Un po’ come Il suonatore di flauto di Filippo De Pisis, dipinto nel 1940: un ambiente intimo, tocchi di colore, e come soggetto uno di quei “selvaggi adolescenti” che frequentavano l’artista nel suo studio, insieme ai letterati, e ai colleghi dell’epoca. In una Milano che si vedrà anche nel bellissimo Il Foro Bonaparte a Milano: siamo nel 1941 e la pennellata di De Pisis è ancor più rapida, schizzata, risultato di uno sguardo in grado di sommare le grandi Avanguardie di qualche decennio prima, e riversarle sulla tela con un nuovo corso. E sullo sfondo, ancora, il capoluogo lombardo come luogo di lavoro e d’amore. In una serie di anni che, purtroppo, non hanno perdonato i loro protagonisti. 
Matteo Bergamini

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