10 giugno 2025

Mostra la tua ferita: il teatro di Michelangelo Dalisi rilegge l’eredità di Joseph Beuys

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Al Centro Pini di Milano, un appuntamento del festival Da vicino nessuno e normale: Michelangelo Dalisi porta in scena il suo omaggio a Joseph Beuys. Ne parliamo con l’autore

Michelangelo Dalisi, Controimmagini, ph. Ivan Nocera
Michelangelo Dalisi, Controimmagini, ph. Ivan Nocera

Michelangelo Dalisi porta in scena Controimmagini, il 10 e 11 giugno al Festival Da vicino nessuno è normale al Centro Pini di Milano, un omaggio sentito e personale a Joseph Beuys. Un dialogo tra memoria e attualità, tra gesto artistico e relazione viva con il pubblico, in cui il teatro si fa spazio di trasformazione, ascolto e consapevolezza. Ne parliamo con l’autore, in questa intervista.

Michelangelo Dalisi, Controimmagini, ph. Ivan Nocera

In che modo il teatro riesce a trasmettere la potenza che può avere il gesto di un artista come Beuys?

«Credo che il teatro sia il luogo dove tutte le arti si incontrano: musica, gesto, danza, letteratura, poesia, pittura e performance. È un’arte che accade dal vivo, nel presente, condivisa da attori e spettatori, rendendola intensa e potente. Restituire la forza del gesto di Beuys è impossibile, ma proviamo a citarlo, evocarne il pensiero e soprattutto la sua indecifrabilità. Beuys creava cortocircuiti, assemblava materiali e segni, definito uno sciamano. Le “controimmagini” sono segni nascosti che invitano lo spettatore a fare connessioni personali e scoprire nuovi significati, la vera magia del suo lavoro e del teatro».

Perché portare in scena l’arte di Beuys? Cosa ci aspettiamo?

«In realtà, non mi aspetto nulla. L’aspettativa spesso genera delusione. Ho cercato invece di ricreare le atmosfere e i climi che Beuys sapeva creare nei suoi incontri pubblici e dibattiti. Come a Documenta, quando disse: “Quest’anno non porto un’opera, porto il dialogo” e si chiuse in una stanza per 100 giorni a parlare con chiunque volesse, di natura, politica, arte, spirito. Il teatro permette questo: uno spazio vivo, di relazioni.

L’idea è nata quasi per caso, trovando in una libreria un vecchio catalogo di Beuys e Warhol a Napoli. Ho rivissuto un ricordo d’infanzia: mio padre, artista, mi portò a una delle ultime mostre di Beuys a Napoli, un mese prima che morisse. Quel ricordo è magico e mitologico. Mio padre, vicino alla galleria di Lucio Amelio, ci faceva vedere Baselitz, Twombly…è scomparso tre anni fa. Negli ultimi tempi, cercando un dialogo con lui, mi sono chiesto cosa significhi oggi essere artista e ricevere un testimone. Ho voluto rendere omaggio a lui e all’artista, attraverso Beuys. Studiandolo, ho scoperto quanto fosse teatrale.

La storia dell’incidente in guerra, dei Tartari, del grasso e del feltro…forse è un mito, ma è potente. Il calore, per lui, era energia vitale. E quel calore, in scena, lo senti davvero se apri un dialogo col pubblico. Beuys diceva: “Forse l’arte non mi interessa, mi interessa ciò che attraverso l’arte mi permette di parlare con le persone”. Forse è tutto lì.

Ora non so se farti uno spoiler…».

Oramai me l’hai detto…

«A un certo punto dello spettacolo, le battute non sono più scritte: ci fermiamo e vediamo cosa succede con il pubblico. Ci assumiamo questo rischio. Del resto, anche nei lavori di Beuys il pericolo era sempre presente. Pensa alla performance I Like America and America Likes Me. Si fece chiudere per tre giorni in una galleria a New York con un coyote vero, insieme solo a delle pile di Wall Street Journal. Il pubblico osservava da dietro una rete. Hanno giocato, mangiato, dormito insieme.

Il titolo era una risposta ironica a chi lo accusava di essere antiamericano, in piena guerra del Vietnam. Il coyote, simbolo di resistenza e spiritualità per i nativi americani, diventava metafora dei popoli feriti dalla colonizzazione. Un gesto potente, simbolico, ambiguo, e ancora oggi apertissimo».

Michelangelo Dalisi, Controimmagini, ph. Ivan Nocera
Michelangelo Dalisi, Controimmagini, ph. Ivan Nocera

Il feltro e il grasso sono un po’ come la coperta di Linus di Beuys. Quali sono il tuo feltro e il tuo grasso in scena?

«Il teatro in sé. Lo spettacolo nasce da un intreccio tra il teatro in sé, il suo spirito, e una personale rielaborazione di Beuys. Non è un documentario, ma un assemblaggio di segni e performance ispirate a lui, rielaborate da me e dal mio compagno di scena, Marco Cacciola, che ha dato un contributo fondamentale alla scrittura scenica. In scena ci sarà un momento dedicato a mio padre, con un gesto semplice ma simbolico: poserò un cece su una sedia.

Questo richiama un laboratorio che mio padre faceva con bambini di quartieri difficili a Napoli, chiamato “la sedia del cece”. I bambini disegnavano e costruivano design rudimentale, e una bambina realizzò una sedia per far riposare un seme, un gesto carico di tenerezza e significato, che racchiude l’umanità e l’attenzione verso la cura e la crescita, elementi fondamentali nel percorso artistico e umano che vogliamo raccontare.

Mio padre, nel corso degli anni, ha chiesto a molti artisti e scrittori di interpretare la sua “sedia del cece”. Da Eco ad Andy Warhol, fino a Beuys, tutti hanno fatto la loro versione. Alla mostra monografica al MAXXI di due anni fa hanno finalmente raccolto e pubblicato tutti questi disegni, parte fondamentale della sua ricerca. A partire dall’opera di Beuys Mostra la tua ferita, ci sarà un momento in cui lo faccio anch’io, in cui abbandono la finzione, esco dalla costruzione scenica e mi espongo. Una parentesi breve, ma necessaria, in cui il filtro teatrale si rompe e divento semplicemente me stesso».

Michelangelo Dalisi, Controimmagini, ph. Ivan Nocera

Beuys lo si può leggere sia in chiave politica sia in chiave ambientalista, soprattutto oggi…

«In scena si parla di alberi, natura e inquinamento, che Beuys collega a un inquinamento interiore. Per lui, il politico è legato allo spirituale, non allo Stato o al partito, ma alla rivoluzione della coscienza. “La rivoluzione siamo noi” è un pensiero profondo, non uno slogan. La scultura sociale nasce dal risveglio interiore, da un lavoro verticale.

Palazzo Regale, sua ultima mostra, rappresenta la mente come palazzo da abitare, dove ognuno è sovrano e artista. Plasmiamo la realtà con pensieri ed emozioni, richiedendo un lavoro sottile, invisibile, citando Steiner e l’alchimia. Anche un gesto semplice, come sbucciare una patata, può diventare arte e politica, perché per Beuys arte e politica coincidono in una trasformazione profonda del vivere».

Michelangelo Dalisi, Controimmagini, ph. Ivan Nocera
Michelangelo Dalisi, Controimmagini, ph. Ivan Nocera

Ma se tutto può essere arte, basta l’intenzionalità con cui si affronta un gesto, allo stesso modo quindi nulla può essere arte?

«Lui dice chiaramente: non mi interessa l’arte se non possiamo essere tutti artisti. L’arte per lui era solo un passaggio, non il fine. Immaginava una società in cui, raggiunta la consapevolezza, non servirebbero più arte, politica, leggi ambientali o polizia. Forse tra migliaia d’anni. Diceva anche che non tutti sono pittori o scultori: non era uno slogan o una visione new age, ma un discorso critico e personale. Pur impegnato in azioni collettive, ha sempre seguito un percorso individuale. Tutto può essere arte, ma non tutto lo è: questa ambiguità è la sua forza».

Si potrebbe aprire un lungo dibattito su cosa sia arte oggi e di conseguenza chi è artista oggi…

«Ti faccio uno spoiler: c’è un momento, ironico, che non c’entra con Beuys ma parla del mercato dell’arte, del potere delle gallerie, dei collezionisti, del brand. Un piccolo gioco condotto da Marco Cacciola, mio compagno in scena. Se poi, come a Napoli, il pubblico intervenisse e tutto iniziasse a scricchiolare, sarebbe pericolosamente interessante. Perché quando il dibattito irrompe in scena, lo spettacolo smette di essere teatro e diventa realtà».

Che cosa ti è stato detto a Napoli?

«A un certo punto si parla del mercato dell’arte e della guerra, con la sua canzone ironica contro Reagan, Sonne statt Regen — sole invece di pioggia, ma anche “invece di Reagan”. Noi giochiamo con quella provocazione, usando nomi di politici. Qualcuno si è agitato: c’è una nuova forma di censura, mascherata da correttezza politica. Il gioco della provocazione resta aperto. Se succede, succede. Ci interessa restare in ascolto, aperti all’imprevisto. Il teatro accade ogni sera, unico, e può anche fallire. Come dice Antonio Morganti, chi si nega il fallimento si nega l’arte. E questo, ne sono certo, sarebbe piaciuto anche a Beuys».

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