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Nella Russia di Turgenev, padri e figli ieri come oggi: al Mercadante
Teatro
Lo spettacolo finisce con la canzone “Eve of destruction” di Barry McGuire, con quelle parole che ci riportano prepotentemente al dramma della guerra di questo nostro brutto tempo: «La violenza si diffonde, i colpi sono in canna… L’Est del mondo sta esplodendo… Dimmi amico, non credi che siamo al principio della fine?…». Era un brano di protesta del 1965, un grave avvertimento di un’apocalisse imminente che sembrava scongiurata. Fausto Russo Alesi lo ha scelto per chiudere la sua messinscena di “Padri e figli” di Ivan Turgenev. Sul vasto palcoscenico totalmente spoglio campeggia solo una pavimentazione rialzata di assi di legno, con un lungo tavolo e delle sedie di ferro. Una scenografia che assomiglia ad una sorta di cantiere di lavori in corso con questi elementi che, spostati, ricomposti, divelti, ammucchiati o anche rotti, fungeranno da luoghi delle azioni. Evocheranno i poderi, le dacie, i palazzi, i paesaggi, le case della Russia raccontata in “Padri e figli” (1862).
Si deve alla passione dell’attore, e qui regista, Fausto Russo Alesi per questo grande romanzo «In cui scorre la ricchezza e l’orrore della vita» – scrive nelle note di regia -, la riduzione per la scena attuata con lo studioso di letteratura russa Fausto Malcovati e l’impegno produttivo di Ert, progetto che ha avuto una lunga gestazione iniziata nel 2016 al Centro Teatrale Santacristina, portato a termine a tappe e interrottosi poi causa Covid. La rappresentazione di oggi s’innesta prepotentemente nell’attualità già solamente perché si parla di Russia. E, nelle tematiche del romanzo, di opposizione alla violenza, di mancanza di contatto tra il potere e il popolo, di censura quale prodotto di un potere opprimente, e con Turgenev che indica la necessità di costruire e non distruggere.
Sullo sfondo della guerra di Crimea, della grande Russia conservatrice e patriarcale dei latifondi e dei primi timidi moti liberali, il confronto e lo scontro è tra padri conservatori e figli progressisti. Ai primi, aristocratici, idealisti, immobili nel loro privilegiato irrigidimento, si contrappongono i secondi, democratici, materialisti, nichilisti. Da questo conflitto generazionale, e con tutte le contraddizioni dei personaggi, tutti ne usciranno sconfitti. «Il nichilista non s’inchina davanti all’autorità di nessuno e non accetta nessun principio, anche se si tratta di un principio cui tutti obbediscono», dichiarano i giovani Arkadij Kirsanov e Evgenij Bazarov, rifiutando con arroganza valori e fedi.
Perno del romanzo è la loro amicizia calata nei rapporti intimi e familiari tra padri e figli. Quando il primo, fresco di laurea, torna nella casa di campagna del padre, il proprietario terriero Nikolaj Kirsanov, con l’amico Bazarov, si determina subito il contrasto radicale tra la vecchia e la nuova generazione. Bazarov è un giovane medico che crede soltanto nel metodo sperimentale, nella fisica e nella filosofia, un nichilista che sbandiera le proprie idee con spavalderia e insolenza. Le sue convinzioni hanno il potere di turbare il mite Kirsanov e di irritare suo fratello, lo scettico ed elegante Pavel.
Nella città capoluogo del governatorato i due giovani, a un ballo, fanno la conoscenza della bella vedova Anna Odincova. Bazarov se ne innamora pur non ammettendolo, e si dispera quando lei, anche se attratta, gli sfugge. Affronterà anche un duello con Pavel, e infine ritornare ai suoi esperimenti scientifici nella fattoria dei suoi genitori i quali nutrono per lui una profonda ammirazione. Apatico e in preda al mal d’amore, si ferisce proprio durante l’esercizio delle sue attività contraendo per trascuratezza un’infezione mortale. Anna accorre al suo capezzale e lo assiste nelle ultime ore con pietà, ma senza amore. La vita dunque, attraverso lo sviluppo della passione amorosa, che egli aveva sempre negato, si prende la rivincita sulle teorie rivoluzionarie e razionaliste di Bazarov e sancisce la sua fine, vittima del destino e delle sue stesse contraddizioni.
Encomiabile il lavoro di Russo Alesi nel tradurre un’opera letteraria non nata per il palcoscenico. Divisa in due tempi e a quadri, per una durata complessiva di cinque ore, la trasposizione scenica scorre tra le parole e i corpi dei bravissimi tredici giovani attori. In abiti d’oggi e sempre in scena, essi sostano ai lati, riprendono i ruoli, intrecciano fitti dialoghi rivolgendosi anche al pubblico e verso la figura dell’autore impersonata dallo stesso Malcovati, presenza polarizzante che siede silenziosa in vari punti del palco osservando lo svolgersi degli eventi. È lui a dare l’avvio della storia con poche battute introduttive tenendo in mano il romanzo, e lasciandolo subito a una delle attrici (Marina Occhionero). Sarà lei a condurre la lunga narrazione sfogliandolo come un copione.
L’andamento dinamico, vivace, coinvolgente e rapido, con gli attori che si passano il testimone con battute in terza persona, descrivendosi nei pensieri e nelle proprie e altrui azioni, crea uno sviluppo quasi cinematografico con primi piani, campi lunghi e medi. Che avvince dall’inizio alla fine, facendosi affresco corale universale, di ieri e di oggi. Matteo Cecchi è Bazarov, e Luca Carbone Arkadij, Stefano Guerrieri e Alfredo Calicchio i padri, Luca Tanganelli lo zio Pavel, Daria Pascal Attolini la vedova Anna, e Marta Mungo, Eletta del Castillo, Zoe Zolferino, Giulia Bartolini, Marial Bajma Riva. Lo spettacolo è una produzione ERT/Teatro Nazionale e Teatro di Napoli – Teatro Nazionale e sarà in scena al Mercadante di Napoli fino al 27 marzo e poi al Teatro Verdi di Pordenone, l’1 e il 2 aprile.