19 aprile 2020

Milano, a bordo del tram 33: viaggio dentro la mia stanza

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Un viaggio minino, per scoprire se la città è ancora dove l'avevamo lasciata. E per smetterla con la fobia che sta uccidendo i suoi abitanti

Tram 33, Milano
Tram 33, Milano

Si apposta alla fermata del 33, forte della sua autodichiarazione che dice “recapito farmaci urgenti”.
L’ha già fatto. La prima volta li ha portati a un amico che poi è finito in ospedale. Ha odiato ogni secondo di quel mascheramento, di quel non toccare nemmeno il citofono, del depositare un sacchetto davanti a una porta chiusa. Di fuggire prima che si aprisse. Di gridare da lontano ti abbraccio al vuoto. Nel vuoto.
Le medicine per suo padre le ha lasciate dentro a un ascensore. L’amico dall’ospedale è tornato, lo zio anche, la zia, dalla Baggina, no. Il tram arriva sfrecciando nel vuoto.
Lei adora il traballio del legno ancor di più quando lo vede, quando lo calpesta per salire. Adora il cigolio delle porte che si ripiegano su se stesse per farla entrare e poi la sigillano dentro, la durezza delle panche.

Linea tram 33, Milano
Linea tram 33, Milano

È vuoto, è tutto per lei.
A ricordi si sommano ricordi, il tram si muove, il sole penetra per traverso, l’aria è piena di un pulviscolo dorato che accarezza gli occhi, la mascherina la dà già fastidio. Non si abituerà mai a quel ferretto che lstringe il naso e all’elastico che tira sulla nuca, i capelli ficcati dentro per vederci ancora qualcosa.
La città sfila fuori, molto più veloce di tutte le sensazioni che la pervadono, le pare di volare. È una certa ebbrezza la sua.
Il rollio, il becchettio della frenata, lo spostamento d’aria, le porte che si aprono e si chiudono a inghiottire ancora un po’ di vuoto. Non è salito nessuno, forse a Garibaldi.
Stringe le scatole di eliquis, la dose sbagliata nella borsa. Quelle per suo padre. Quelle da cambiare.
Il cambio non è urgente perché nel frattempo gli sono state recapitate a casa quelle col dosaggio corretto.
Ecco, sale un uomo, un maschio ma non sappiamo quanti anni ha, il suo volto sta sotto una coppola, dietro a un paio di occhiali a specchio, dentro una mascherina, le mani, come quelle di lei, implasticate di bianco e, come quelle di lei, certamente sudano.
Non aveva mai immaginato di percorrere con affetto, con gratitudine quasi la stretta via Rosales che si apre poi controluce su viale Montegrappa, le cucine economiche di fronte al suo vecchio asilo, ricorda che un albero, chissà quale di quelli che crescono nel giardino, era stato piantato lì quando lei era piccola.
Era venuto il sindaco, un certo Carlo Tognoli, un socialista.

Tram 33, Milano
Tram 33, Milano

Scorre la città, c’è ancora tutta. È salita sul 33 per un motivo affettivo, perché lo sente traballare dalla finestra tutti i giorni, perché sua figlia lo usa per andare a scuola e soprattutto perché è un tram di legno.
Ha un odore tutto suo, i manici di metallo, le maniglie che penzolano attaccate a cinghie che una volta erano davvero di pelle. Penzola la pubblicità del MIDO, Mostra Internazionale Ottica, dal 29 febbraio al 2 marzo. Siamo a metà aprile.
Fuori sfreccia Porta Nuova e l’ospedale, luogo cura e di tortura per sua madre. Piazza Repubblica.
È ancora qui e anche la stazione. L’erba cresce alta, le piante escono dai cancelli, li superano, il verde accarezza la strada in scioltezza, la incornicia in morbidezza eludendo il rigore metallico che non serve più a niente. Sì, le piacerebbe che il verde s’impossessasse della città. Le macchine che passano sono davvero poche, sembrano le tre di notte ma sono le nove del mattino. Midnight all day. Era il titolo di cosa?

Anche lei fa sempre più fatica a vestirsi, sono gli incontri on-line che la spingono a indossare un colore, un gioiello, un sorriso. Si è quasi abituata alla sua faccia sullo schermo. È già in viale Regina Giovanna. Il sole ora sta dietro, il tram scorre su un’arteria che la porterà a nord, verso il suo studio e oltre. Ci è salita, non per vedere La Scala e il Duomo e tutto quello che rappresenta Milano, ma per essere certa che tutto quello che rappresenta la sua quotidianità, i lunghi viali che la portano in studio, fossero ancora al suo posto. Arriva in piazza Ascoli in dieci minuti. Il tempo accelera dentro a questo bolide lanciato nel vuoto, che raramente si ferma.
Fuori via Pascoli, anni dallo strizza proprio lì, il primo il più importante, quello che aveva misurato i segreti del suo inconscio.
L’uomo mascherato si alza in piedi e schiaccia il pulsante rosso. Pulsante perché pulsa. Etimologia e finestre fuori dal finestrino, plastica rossa e vegetazione lussureggiante, gli alberi di città studi non sanno che c’è il lockdown, la chiusura totale, non parlano inglese. Forse passeranno i cervi anche di qui.
Li cerca, curiosa di qualsiasi presenza animale, ma c’è solo un cane, che tiene al guinzaglio la sua padrona, bionda, mogia, al telefono, davanti ai prati che sfiorano il Politecnico. Anche lui è al suo posto.
Sul tram è salita una donna, grossa scura e sorridente le pare, accompagnata da una borsa grossa e scura. Si siede in fondo in fondo.
Lei invece sta davanti, in testa, come se fosse sulle montagne russe. Fuori la città scorre vuota e silenziosa, solamente in orizzontale, come le code fuori dal supermercato. Siamo al capolinea, a Lambrate.

Piazza Rimembranze di Lambrate, capolinea 33
Piazza Rimembranze di Lambrate, capolinea 33

Le gallerie, la chiesa, il funerale di… Tutto aperto solo nella sua testa.
Il tram si ferma. Il cuore batte. Che fare? E se, e se, e se?
Niente, non fa niente. Il conducente scende e lei sta seduta al suo posto, la testa tuffata sul cellulare, il sacchetto della farmacia in bella vista accanto a lei, i medicinali quasi fuori.
Voleva indossare un bell’abito oggi, colorato forse, in omaggio alla primavera, una giacca rosso fuoco, tacchi addirittura, poi ha optato per non dare nell’occhio, per non attirare attenzione.
I soliti jeans, la solita maglietta. Scarpe da ginnastica, un grido giallo limone e il solito giubbotto blu. Pas de quoi.
Gli occhi li tiene fuori, quelli si, niente occhiali da sole. La vuole testimoniare la città, che così vuota accoglie meglio i ricordi. Quel maledetto incidente, quel maledetto funerale. Niente distrae lo scorrere dei pensieri, che si accavallano, portano addirittura lacrime.
Una farfalla da collezione, infilzata sotto vetro dalla mascherina sulla panca di un tram. Così si sente.
Uno scossone e via, il tram è ripartito. L’ora d’aria è finita, il funerale anche.
Il ritorno è un lungo addio struggente. A chi non tornerà più.
Via Valvassori Peroni. Scorre la città dietro di lei in un abbraccio che continua a sciogliersi e che non riesce a trattenere.
Il tram è così veloce. Non le da modo di districarsi nel tempo. Passa la solita ambulanza a sirene spiegate. Spiegate, spiegateci le sirene. Spiegateci le morti che continuano ad avvenire, i tamponi che mancano, le quarantene senza controlli. Spiegateci.
Il tram scorre sul viale dove da ragazzina ha vissuto tra casa di suo padre e casa di sua madre, alternandosi, senza tregua, uno di fronte all’altro, comoda ironia della sorte. Il tram scorre sicuro lungo i binari, dentro i binari, quelli da cui la nostra esistenza quotidiana è uscita, ma loro fortunatamente ci rimangono. Si ferma sotto casa, lei si alza e scende.
Le medicine sono rimaste sul tram.
La scusa per qualcun altro.

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