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Arte Povera, si può andare oltre? Come gli artisti esplorano la materia, oggi
Arte contemporanea
È di respiro internazionale la collettiva Membrane, visitabile fino al 27 giugno alla galleria Contemporary Cluster di Roma. Un iter che induce a riflettere sullo stato dell’arte, sul citazionismo, ma anche sull’individuazione di correnti artistiche sottotraccia, non ancora o non da tutti riconosciute tali.
I freddi innesti metallici di Vikenti Komitski (Sofia, 1983); i guard rail stradali rimodulati di Giovanni De Cataldo (Roma, 1990); le sculture-paesaggio in bronzo patinato, legno, poliuretano, impasti non immediatamente leggibili di marmi levigati e terracotta di Alessandro Vizzini (Cagliari, 1985); le pellicole cromatiche sotto teca di Inma Femenìa (Pego, 1985); le tele di Tycjan Knut (Varsavia, 1985), trattate come dispositivi ottici di vibrazione e amplificazione chiaroscurale; i frammenti murali stratificati di Bram Braam (Olanda, 1980). Rispondono tutti all’invito curatoriale di Federico Montagna: trattare la materia artistica come pelle, ambiente dove accadono delle cose più che come piano di espressione bidimensionale. Locus non costrittivo quanto centrifugo, vivo, dinamico.

Risonanze e ritorni: tra spazialismo e industrial art
L’invito sotteso alla mostra non può non richiamare alla mente certi gesti affiorati a partire dal dopoguerra: i tagli di Fontana, le estroflessioni di Bonalumi, Scarpitta, Amadio; le superfici configurate di Castellani, le linee luce su alluminio e gli spazi elastici di Alviani…
I materiali utilizzati in Membrane si fanno però specchio anche di un ritorno – più che evidente nello skyline contemporaneo – dell’industrial art, che il gallerista Giacomo Guidi non sembra aver mai perso di vista. Testimoni ne sono, ad esempio, la mostra Transeunte (2024) con le schiette e poetiche impalcature di Renato Calaj (anticipatrici dei tubi innocenti e “canori” di Bartolini al Padiglione Italia, annunciati dall’inspiegata effigie buddista, che non hanno convinto parte della fruizione, all’ultima Biennale di Venezia); o la mostra Petrolio (2024) con le monumentali sculture in polistirolo, i seducenti quadri in cemento e olio motore esausto di Jonathan Vivacqua e così indietro, a Palazzo Brancaccio, ex sede di Contemporary Cluster.

È tutto Arte Povera?
C’è anche chi potrebbe smentire il ritorno all’industriale e considerare tutti gli artisti che dagli esordi ad oggi hanno scelto di adottare materie di recupero desunte dall’edilizia, l’artigianato e la carpenteria, quali figli mai sazi degli interventi iniziatici e poveristi di autori quali Boetti, Fabro, Manzoni, Merz, Paolini, Pistoletto eccetera. Figli insomma, di coloro che, tra gli anni ’60 e ’70, in Italia, sperimentarono e provocarono tra concetto, objects trouvés e superfici grezze, prima della fugace ondata pittorica transavanguardista.

Un rischio appare quello di rendere l’Arte Povera un immenso calderone, guazzabuglio ribollito alla Pulci, ove buttare un po’ tutto quel che non si riesce o non si può ben classificare. Persino Richard Serra, esponente del minimalismo americano, viene spesso inglobato nel poverismo, buco nero e tentacolare.
Vero che la vocazione attuale dei molti attori italiani dell’arte non riesca a scavalcare questa secca, ormai palus putredinis, poverista. D’altronde non si fa che riproporne i pionieri alle mostre istituzionali, tra centenari ed altre ricorrenze (si veda la ben trimestrale retrospettiva romana di Accardi al Palaexpo, 2024). E, certo, occorrerebbe operare dei distinguo tra quelli che frequentano ancora l’inestinta Arte Povera per ragioni che potremmo definire “dinastiche” e quelli che vi si aggrappano per aggirare il terrore del criticato isolazionismo e/o per via dell’agio di stazionare entro la vastissima landa boschiva del già conosciuto. Nell’ottica di una inclusività artistica, indossando la maschera della callida complicità. Vero anche che nulla è da ritenersi inedito se si considerano le riappropriazioni più o meno lecite, le più o meno confessate filiazioni.

Ma, per quanto duri, una filiazione è pressoché immobile; si sigilla in pose trite, destinata com’è a procedere retrocedendo, nell’auspicio di uno scarto raramente pervenuto; giacché, laddove pure scompaia la vera radice di un gesto artistico, esso stesso può spesso assumere le fattezze di un camuffato diniego, più che il profilo di un’attendibile e autentica metamorfosi in atto.
Fare ordine
Poiché oggi si è nel pieno dello sconfinamento artistico, urge almeno una bozza di categorizzazione – una griglia, un filtro che decodifichi stili e correnti, inventariando, ove possibile, le diverse forme di incarnazione, entro le quali l’artista esprime sensibile e sovrasensibile.
L’arte industriale non è un movimento artistico ma una categoria-ombrello, che tocca differenti forme d’arte e ne esclude altre. Non tutta l’Arte Povera è industriale, non tutta l’arte industriale è inevitabilmente figlia del poverismo. Conta il messaggio che c’è dietro l’opera e quello che arriva, l’intento dell’artista, il processo.

La confusione e la svogliatezza nell’etichettatura disarma la critica e impoverisce il gusto, riducendoci, al cospetto di un lavoro artistico, sbigottiti e incerti nel rispondere all’effimero e puramente estetico dubbio social: “mi piace o non mi piace?”.
In questa prospettiva Membrane porta luce. Nessuno dei suoi giovani protagonisti guarda all’Arte Povera, quanto piuttosto a una corrente ctonia, con radici nord-europee, che più di tutti si riconosce nell’olandese Bram Braam. Rappresentativa di un passo in avanti rispetto al graffitismo. Un tipo di arte volutamente disambientata, che ambisce ad elevare sui lindi altari dell’arte il degrado urbano, stracittadino. Un’arte cattiva, pregna di un furor ben radicato nella storia dell’arte e dell’umanità. Chi ha occhi per intendere intenda.

È arredo per interni Minimal di gente Bo.Bo. Roba strafatta e scaduta
Ottimo articolo, analisi lucida e attenta, condivido in pieno: di artisti che oggi scimmiottano poverismo & co è pieno, vedi LULÙ NUTI… Bravi questi che sono andati oltreee