23 maggio 2022

Georgina Starr, Quarantaine – Pinksummer

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Due ragazze entrano da un albero ed escono da un portone. Da aggiungere c'è solo che Georgina Starr torna, dopo dieci anni esatti, a Genova da Pinksummer

Georgina Starr - Quarantaine - 2019 - film 43 min - Edition 2 of 5 + 2 AP - courtesy l'artista e Pinksummer

Inizia nel traffico di Londra. Come un qualsiasi film. Non stupisce nemmeno che una ragazza, in giacchetta di pelle nera, strappi con veemenza parti (attenzione: gambe, questo potrebbe essere un indizio) da un grande manifesto. Quando se le carica in motorino, per poi infilarle dentro un albero (per poi a sua volta infilarcisi lei tutta intera), qualcosa probabilmente è lì per accadere. Un’altra ragazza la segue.

Già raccontare il finale di un film a chi non l’ha visto non è carino, figuriamoci spoilerarlo d’emblée, alle prime righe di un articolo scritto apposta. Ma Quarantaine, mediometraggio che dà il titolo alla nuova personale di Georgina Starr (Leeds, 1968) da Pinksummer, indubbiamente oblige.

Quindi: siamo sempre a Londra. Le due si dicono qualcosa una all’orecchio dell’altra. Ridendo, sedute sulle scale, di fronte a un portone con su scritto “Women”. Mentre allo spettatore, che il loro percorso l’ha subito e non vissuto, non è dato di sentire nulla. A parte i rumori di una città che nel frattempo non si è mai fermata. Nel mentre, si sono anche passate la giacca di pelle nera. Qualcosa le ha unite.

Georgina Starr – Quarantaine – 2019 – film 43 min – Edition 2 of 5 + 2 AP – courtesy l’artista e Pinksummer

Quarantaine. L’educazione secondo Georgina Starr

Il finale è l’unico momento in cui le protagoniste di Quarantaine affrontano un dialogo diretto. Per tutto il percorso, tra una fase e l’altra, la loro comunicazione è veicolata attraverso sguardi e gesti; sovrastata da suoni, ma soprattutto vocalizzi che entrano fastidiosamente nel cervello. E quando c’è del parlato, sono solo frasi pronunciate in maniera pedissequa, sotto dettatura di Pearl Mama One. Una sorta d’istitutrice, l’unica col dono della parola nel sistema educativo che Starr ci racconta di aver voluto rappresentare.

Quarantaine, non a caso, procede come un programma scolastico. Le due ragazze offrono per certi versi dei modelli standardizzati e, in quanto tali, possibilmente agli antipodi: una è un po’ la “bad girl” decisamente rock, l’altra la “good girl” di turno, tutta vestitino a fiori e libro (non qualsiasi: il Trattato di magia pratica di Papus) tra le mani.

43 minuti di proiezione, che dall’inizio alla fine puntano sulla mimica facciale come veicolo emozionale. In cui a un certo punto Starr sceglie di mescolare le carte. Tarocchi, da lei disegnati, presenti peraltro in mostra coi disegni originali. Letti in una sala grigia, davanti a quella parete di uova già incrociata in Androgynus Egg, progetto del 2017. Ed è in questo momento che la nostra “bad girl” si trasforma d’un tratto in una perfetta replicante di Alice, e come lei inconsapevolmente cerca il suo paese delle meraviglie. D’altronde Lewis Carrol ne sapeva in fatto di avvincenti percorsi “catartici”.

Georgina Starr – Quarantaine – 2019 – film 43 min – Edition 2 of 5 + 2 AP – courtesy l’artista e Pinksummer

So pink, so seventies

Ciò che più ci ha colpito in tutto l’iter affrontato dalle ragazze? Non è l’entrata in scena del Pink Ursula Material, viscido come lo slime (generazioni di ex-bambini sanno bene cos’è) e rosa come una gomma da masticare. È la più che palese fascinazione dell’artista per gli anni ’70. Georgina ce l’ha confermata, legandola inevitabilmente all’ispirazione presa dal Jacques Rivette regista di Celine e Julie vanno in barca (1974) e Duelle (1976). Per la cronaca: Rivette si è a sua volta ispirato all’Alice di Carrol.

Fatto sta che questo disallineamento temporale ha l’effetto di far levitare il lavoro di Starr, sbalzandoci – qualora ce ne fosse bisogno – ancora più fuori da quella realtà che termina in una materia molliccia e rosa.

Fotografia, set, trucco, abbigliamento, ogni cosa presa di peso dalla filmografia anni ’70 è un metro di distanza in più tra chi è entrato nell’albero e chi è rimasto fuori; tra le protagoniste e te, che sei assoggettato all’uso di melodie-nenie perfette per accompagnare i momenti clou di un thriller d’epoca, quelle a cui i cineasti più consumati si sono sempre affidati per tenere alta la tensione. E quando questo spirito seventies incrocia la scena della Light Room, le ragazze stanno lì, a girare attorno a un’istallazione di lampade dalle luci calde: decisamente in linea con gli inizi del decennio, a cavallo con la fine di quello prima. Referenze del caso? Alcune esperienze di Pier Paolo Calzolari, Gilberto Zorio e di striscio Vasco Bendini, solo per citare i primi che vengono in mente.

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