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La passione per le geometrie disilluse
Arte contemporanea
Le gallerie hanno riaperto da un po’. Si preparano, semmai, pure a richiudere. In questa atmosfera così sbagliata, non è un caso che un’artista come Ann Veronica Janssens (Folkstone, 1956) – in mostra con la sua quinta personale presso la Galleria Alfonso Artiaco di Napoli (le precedenti nel 2007, 2010, 2012 e 2016) – abbia deciso di “indagare la percezione della realtà, smaterializzandola”.
Il comunicato stampa lo dice con leggerezza, en passant, quasi senza cogliere la gravità del fatto. Ma è così davvero: la sensazione, o meglio, l’impressione che le cose lasciano su di noi è oggigiorno immateriale; questa realtà che presumiamo di avvertire, ci appare infatti frammentata, sganciata dalla nostra percezione, diseducata, ribelle. Il nostro mondo si è fatto adolescente. E ha preso una cattiva strada. In definitiva, siamo in preda a una distopia del tempo presente.

Per questo non stupisce la tendenza artistica, ormai anche troppo indagata, che gioca sulla separazione degli elementi: blocchi di vetro e nuvole di vapore acqueo che appaiono, nello spazio della galleria, senza vincoli. Senza legami. Incapaci, guarda caso, di toccarsi.
Certo, non tutto ha a che vedere con gli avvenimenti dell’ultimo anno; del resto, la mostra raccoglie opere sia nuove che precedenti, in dialogo tra loro. Ma tutto ci riguarda, tutto rimanda al nostro sguardo. E la nostra natura percettiva ha certamente subito un colpo, un trauma di cui portiamo i segni. L’arte contemporanea ha scommesso molto, anzi tutto su di noi; ma lo spettatore è emotivo, è un soggetto che è fuori di sé, esposto alle influenze. Ancora una volta, non abbiamo cardini, non esiste fissità.

L’indagine della Janssens ha sempre viaggiato in questa direzione, aprendosi cioè allo spettatore, al gioco performativo che si realizza nell’incontro tra l’immobilità dell’opera e il corpo dinamico di chi guarda. Ma questa interrogazione, sebbene interessante, oggi appare fuorviante. Corrotta. Lo spettatore è così immerso nel negativo, dentro un pensiero logorante ed è così bloccato da un’asfissia storica che, chiamarlo al dialogo con l’opera è del tutto fuori luogo.

Cosa verrà fuori da questo confronto se non i sintomi di un malessere profondo, le tracce di un problema? C’è malattia nel grande anello di vetro, Blue Glass Roll 405/2, (2019) che evoca il movimento e il tempo; c’è malessere nella serie di foto, 5 Lines of Pink in the Air, Randomly, (2020) che mostra linee rosa composte da nuvole di vapore acqueo prodotte dallo spostamento degli aeroplani nel cielo.
In tal senso, l’estetica dell’artista anglo-belga si è conservata intatta in questi anni e così pure la lucidità dello sguardo, la passione per certe geometrie disilluse che sembrano averne avuto abbastanza ed essere crollate, alla fine, nel bel mezzo della sala. C’è una stanchezza in quegli elementi naturali, uno sfinimento dell’acqua che stagna, seppur sotto forma di vapori, nebulose e ghiaccio persistente. Pensiamo all’opera Untitled, (2019), in tal senso esplicativa dell’intera esposizione: un blocco di vetro ottico che cattura lo spazio e i colori del luogo. Un frammento di trasparenza immobile, inerme e immotivato, capace però di percepire i colori, il moto del sole che buca le finestre, le folate di vento improvvise, il silenzio della vita là fuori. È la rappresentazione involontaria dello spettatore: un blocco anonimo e assai convenzionale, che tuttavia esiste e suo malgrado assorbe la luce, incamerando gli effetti di questa tragedia.
mostre ed eventi

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