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Non è un diploma in Accademia di belle arti a definire il percorso di Federica Rugnone (1987) ma un background eterogeneo, che spazia dalla filosofia (disciplina in cui si è laureata) alla fotografia, dall’incisione alla sperimentazione con la ceramica. Formatasi tra Bologna, Parigi e Firenze, con incursioni nella Fondazione Marangoni e nella Fondazione Il Bisonte, la sua ricerca nasce da una libertà conquistata attraverso discipline apparentemente distanti. Questa formazione sfaccettata si traduce in una pratica che mescola medium diversi – scultura, fotografia, installazioni – e temi complessi, legati a questioni sociali, identitarie e al rapporto tra umano e non umano.

La sua ultima mostra personale, Re_Human, in programma dal 7 al 24 aprile 2025 alla AOC F58 – Galleria Bruno Lisi di Roma, si presenta come un manifesto visivo che unisce ricerca artistica e impegno sociale. Curata da Benedetta Carpi de Resmini, l’esposizione esplora i temi cardine della produzione dell’artista: la decostruzione delle gerarchie occidentali, la riconnessione tra umano e natura, e la denuncia delle oppressioni sistemiche.
Il metodo di lavoro di Federica Rugnone oscilla tra pianificazione e imprevedibilità: raccoglie fotografie, appunti, frammenti testuali, per poi riorganizzarli come in un archivio disordinato. «Il risultato finale è sempre diverso da quello immaginato», spiega, sottolineando come ogni opera sia un tentativo incompleto di colmare vuoti.

La mostra Re_Human affonda le radici in una storia personale e collettiva. Figlia di un padre palermitano, Rugnone ha esplorato tradizioni siciliane come il culto di Santa Rosalia, rileggendo un gesto antico in chiave contemporanea. La santa, che nel giorno delle nozze combinate si presentò all’altare con le trecce tagliate, diventa simbolo di una ribellione che risuona nel presente: nel 2022, le donne iraniane in piazza hanno fatto dello stesso atto un emblema di resistenza. L’artista collega questi episodi ai femminicidi in Italia, evidenziando una radice comune di sopraffazione che cambia forma ma mantiene intatta la sua vittima: l’autodeterminazione femminile.

Questo dialogo tra corpi e resistenza si amplifica nel progetto La Comune Discendenza, dove Rugnone svela come la cultura occidentale abbia costruito una rete di esclusioni funzionali al controllo di tutto ciò che non rientra nel paradigma dominante: ambiente, donne, minoranze, animali. Attraverso fotografie come quelle di Human Nature – corpi intrecciati a foglie, fiori che diventano utero, ombre fuse con alberi nodosi – l’artista trasforma la sua pratica in uno spazio critico di resistenza, sfidando le gerarchie tra umano e non umano, razionalità e sensibilità.

Il filo rosso della sua produzione è il concetto di confine, inteso non come linea orizzontale, ma come barriera verticale che consente a una maggioranza di opprimere una minoranza. Questa riflessione emerge nella scultura L’intreccio, dove una figura femminile in ceramica ha il corpo avvolto da trecce che simboleggiano le costrizioni sociali. La scelta del materiale – argilla bianca levigata contrapposta a smalti lucidi – crea un contrasto tra fragilità e oppressione.

Ma il confine verticale si estende anche al rapporto con il mondo vegetale. Nel dittico Busto-Tronco Federica Rugnone riflette sull’assonanza tra busto umano e tronco vegetale, un tempo archetipi di connessione tra terra e cielo.
La giustizia di genere e quella ambientale sono per Rugnone battaglie inseparabili. In mostra, cesoie per animali – strumenti di taglio e separazione – diventano simboli di riscatto. Su di esse, l’artista ha inciso, in collaborazione con l’attivista iraniana Pegah Moshir Pour, frasi oppressive in italiano e persiano: «Una brava donna tiene la testa bassa», «Passerà quando ti sposerai», «Non parlare, ascolta e basta». Un invito a tagliare parole che hanno plasmato secoli di dominio, per consentire a nuovi linguaggi di germogliare.

Il lavoro di Federica Rugnone si muove nello spazio poroso tra corpo umano, vegetale e sociale, rivelando come le strutture di potere – patriarcato, sfruttamento ambientale, colonialismo – siano rami dello stesso albero. Le trecce di Santa Rosalia, le cesoie con le frasi da recidere, le fotografie di corpi-foresta: ogni gesto è un atto di ricucitura, un invito a riconoscere che la battaglia per l’autodeterminazione femminile e quella per la salvezza del pianeta sono radici intrecciate di una stessa resistenza.