09 maggio 2022

‘Le Songe d’Ulysse’ alla Fondazione Carmignac, Porquerolles

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“Le Songe d’Ulysse” è la mostra alla Fondazione Carmignac, a Porquerolles, nel sud della Francia, liberamente ispirata all’Odissea di Omero, che riunisce 70 opere dalla Collezione Carmignac, prestiti internazionali e nuove produzioni. Ne abbiamo parlato con il curatore, Francesco Stocchi

France, Var, Iles d'Hyeres, parc national de Port Cros, ile de Porquerolles, Fondation Carmignac © Fondation Carmignac - Photo Camille Moirenc

Quest’anno, fino al prossimo 16 ottobre, sull’isola di Porquerolles, al largo della costa di Hyères, nel sud della Francia, la Fondazione Carmignac propone “Le Songe d’Ulysse”, un’esperienza di mostra immersiva liberamente ispirata all’Odissea di Omero, fruibile attraverso settanta opere provenienti dalla Collezione Carmignac, prestiti internazionali e nuove produzioni. Il progetto espositivo curato da Francesco Stocchi, già curatore del Museo Boijmans van Beuningen e del Padiglione Svizzera alla Biennale di Venezia 2022, complice anche la scenografia disorientante appositamente creata da Margherita Palli, trasforma la Villa in un labirinto in cui il visitatore, valicando come Ulisse i confini del mondo reale, perde le coordinate spazio-temporali. Grazie ad assemblaggi e combinatorie apparentemente casuali, Stocchi sviluppa un audace dialogo idiosincratico attorno ai temi sempiterni del viaggio, del tempo, della seduzione e del mostruoso.

Vue d’exposition Le Songe d’Ulysse – Villa Carmignac, Porquerolles
Oeuvres de Martial Raysse et Jorge Peris © Fondation Carmignac – Photo Marc Domage

Vorrei partire esplorando il tema del labirinto, che è il tòpos intorno al quale hai costruito tutto il progetto di mostra. Quali le riflessioni alla base di questa scelta?

«L’idea del labirinto è venuta da due direzioni differenti. Da un lato la geografia del contesto, la necessità di rispondere alle specificità del luogo e, contestualmente, all’invito rivoltomi dalla Fondazione Carmignac di svolgere un progetto intorno all’Odissea. Quando i visitatori arrivano sull’isola per visitare la mostra, si trovano già nella condizione del viaggio. Volevo protrarre questa condizione, estremizzandola con un invito alla deriva. Perdersi ora è diventata una scelta, non più un incidente. Dall’altro il desiderio di venire incontro alla storia dell’arte, in cui il labirinto è stato utilizzato sia a livello critico con i Situazionisti, sia a livello di exhibition making. Potrei citare anche il Cretto di Burri, il labirinto di Robert Morris, quello di Pistoletto, o quello fatto di specchi di Jeppe Hein, che fa parte della Collezione della Fondazione. Ma sono dei luoghi, nemmeno contenitori, luoghi tout court che sono opere d’arte. In questo caso invece, trovavo affascinante che il labirinto diventasse sia luogo che oggetto di discussione. Si tratta del labirinto, ma ci si ritrova in un labirinto, che ha insita in sé questa forza che lo fa diventare al contempo soggetto e oggetto. Penso che sia uno di quei temi di cui è difficile occuparsene senza viverli e quindi mi sono ritrovato a esplorare questo concetto attraverso la costruzione di un luogo: vivere un labirinto per poi proporlo». 

Vue d’exposition Le Songe d’Ulysse – Villa Carmignac, Porquerolles. Oeuvres de Martial Raysse, Roy Lichtenstein et Francesco Clemente © Fondation Carmignac – Photo Marc Domage

La costruzione della mostra parte dalle opere della Collezione Carmignac e su quelle si innestano i prestiti istituzionali e le nuove produzioni, secondo una logica che definirei labirintica anch’essa. Non un percorso lineare o scontato ma piuttosto in continua tensione dialettica tra Caos e Cosmo, tra ordine e disordine, tra noto e ignoto. Come è avvenuto il processo di scelta delle opere esposte? 

«L’invito fatto al curatore è quello di partire dalle opere della Collezione. Queste rappresentano lo scheletro della mostra, rispetto al quale poi sono nate delle ramificazioni, che ho pensato potessero essere rappresentate da prestiti, sia istituzionali che da collezionisti privati, e da commissioni legate al progetto. Ho applicato in questo caso lo stesso principio del labirinto: non lo puoi fare se non lo vivi. E così, ho pensato che anche le commissioni dovessero essere legate necessariamente al luogo e presupporre lo spostamento fisico dell’artista, il suo lavoro on site, per rispondere in modo quasi catartico al contesto di quest’isola eccezionale. La Collezione è stato il punto di partenza. È molto privata, nel senso che corrisponde al gusto di Édouard Carmignac, che è un vero appassionato d’arte, uno di quei collezionisti che si fida del suo istinto e delle emozioni che le opere gli suscitano. Non costruita scientificamente con la volontà di coprire un periodo piuttosto che un altro, ma con tutta quella idiosincrasia e quei cambi di umore, di toni, di ritmi, che caratterizzano l’animo umano. Riuscire a entrare in questo suo mondo sarebbe stata un po’ una forzatura. E quindi ho cercato, partendo dalla Collezione, di estrarre un certo numero di opere. Sono circa settanta, ma i numeri non vogliono essere precisi… magari qualcuna l’abbiamo persa nel labirinto. Quindi, si dice che siano circa settanta e che gli artisti siano circa cinquanta. Gli innesti effettuati con prestiti o commissioni avrebbero potuto esaltare le opere della Collezione oppure metterle in crisi, creando una specie di sbilanciamento relazionale. Ma ho pensato che, essendo la mostra pensata come una sorta di allegoria del percorso di vita, un’odissea individuale suggerita dall’Odissea epica, questi sbalzi, generati sottolinenando le caratteristiche di un’opera attraverso i suoi opposti, avrebbero potuto essere più funzionali e interessanti nel creare un percorso tutt’altro che lineare, così come lo sono le nostre vite. Ogni tanto, per capire come stavo procedendo, cercavo di riferirmi al vissuto di ognuno di noi. E pur non volendo caricare di troppa enfasi questa allegoria, devo dire che è stata una specie di bussola con la quale orientarmi: enfatizzare un’identità attraverso le differenze». 

Vue d’exposition Le Songe d’Ulysse – Villa Carmignac, Porquerolles. Oeuvres de Camille Henrot, Haris Epaminonda, Tony Matelli et Yves Klein (reflet) © Fondation Carmignac – Photo Marc Domage

Per come conosco il tuo lavoro, nel tuo approccio curatoriale l’arte perde sempre il suo statuto di presunta verità o assolutezza. In questo labirinto disseminato di opere è il visitatore che autodetermina il suo viaggio, senza che vi sia un percorso gerarchicamente e aprioristicamente stabilito. Un movimento dal basso, pulsionale e individuale.

«Questo perché tutto il progetto è stato pensato secondo il punto di vista del visitatore. Ho cercato di rappresentare degli estremi, anche considerando che è lo sguardo dei visitatori quello che poi detta una verità, quella se il senso di questa narrazione arriva o meno. Poter ammirare l’opera di Duane Hanson Seated Child in questo contesto, accessibile alla vista solo attraverso il foro di una parete, può suscitare al tempo stesso terrore, compassione, sorpresa o divertimento e questo dipende esclusivamente dallo stato d’animo o dal vissuto del singolo, quindi dall’odissea individuale di ciascuno. L’idea di creare delle contrapposizioni si accorda con quella di stimolare un più ampio spettro di reazioni, sempre sottolineando una non verità delle cose. È una mostra sulle non verità, in fondo, su ciò che non è fermo e affermato, che arriva fino al punto di mettere in crisi il concetto di sapere globale. Muovendosi in questo labirinto, il visitatore non può avere la certezza di aver visto tutte le opere esposte. Non sa se ha tutto il sapere. Ma tutto il sapere non lo abbiamo mai, è un’illusione, un’utopia, quella di poter creare luoghi che contengano tutto lo scibile umano. Penso per esempio alla Torre di Babele o alla Biblioteca di Alessandria. In scala umana, la mostra apre una riflessione anche su questo tema».

Vue d’exposition Le Songe d’Ulysse – Villa Carmignac, Porquerolles. Oeuvres de Roy Lichtenstein et Niki de Saint Phalle © Fondation Carmignac – Photo Marc Domage

In che modo questi luoghi, l’isola di Porquerolles e Villa Carmignac, entrambi con le loro specificità, hanno concorso all’idea di un format espositivo così sperimentale e per certi versi audace?

«Ho capito qui che avrei potuto fare certe cose, che non avrei potuto replicare in altri luoghi. Un format espositivo molto sperimentale e fuori dai canoni del bell’allestimento, però con materiali di assoluto valore e uno status quo che non si prestano altrove a un trattamento così innovativo. Forse uno degli aspetti più affascinanti dell’arte, quello che mi ha portato dentro questa attività, è la necessità dell’arte, per sopravvivere, di rompere il protocollo nel quale è inscritta. Il suo essere rivoluzione, più che evoluzione, è probabilmente l’aspetto che mi ha sempre maggiormente interessato e il motivo per il quale ho iniziato a lavorare in questo ambiente. Ma sono dovuto arrivare fino alle istituzioni per concedermi questa libertà, come dire che le rivoluzioni funzionano quando sono fatte dal di dentro, non necessariamente dal di fuori. L’aderenza del progetto al contesto è un tema ricorrente nel mio lavoro. Mi chiedo sempre: cosa si può fare qui che non si può fare altrove? Per questo, credo, non mi è mai successo di far viaggiare una mostra. E anche questa, per vederla, bisogna viaggiare. Non è lei che viene da te o essere replicata altrove».

Vue d’exposition Le Songe d’Ulysse – Villa Carmignac, Porquerolles. Oeuvres de Jenny Holzer et John Baldessari © Fondation Carmignac – Photo Marc Domage

Anche questo viaggio, come quello dell’esistenza di cui la mostra è metafora, non si sottrae all’ineludibilità del male, alla sua necessità. Senza di esso la vita, probabilmente, non saprebbe andare avanti. Mi viene in mente l’immagine perturbante del dipinto di Urs Fischer o la creatura di Arcangelo Sassolino, che macina quotidianamente un osso nella sala espositiva.

«Spesso mi sorprendo quando sento le persone parlare di arte associandola direttamente al bello. Quella è un’altra cosa, è estetica, è qualcosa che sta in superficie. Ma non è il bello per come lo intendo io, che significa scavare, rendere visibile ciò che visibile non è (cit. Klee). Un’attitudine che viene anche dalla mia formazione, nata con l’espressionismo astratto, quell’arte quasi ego-maniaca, votata a riversare su tela tutto ciò che si ha dentro, che però lascia molto alla ricezione del visitatore. E se è vero che il male non genera, è altrettanto vero che c’è un’intensità in questo suo movimento introverso e non estroverso, che ha una sua forza peculiare. Cerco di lavorare sempre con artisti che si scavano dentro, e lì dentro, scavando, c’è di tutto. Guardiamo per esempio l’opera in mostra di Thomas Houseago: una maschera nera su fondo nero, una maschera mortifera che è legata alla perdita di un compagno di vita, di un amico. Cosa succede quando l’opera funziona? Che ci si identifica. E chi non ha nella propria odissea un lascito così? Qualcosa o qualcuno che se ne è andato via quando forse era troppo presto? Credo che rappresentare un’odissea significhi anche rappresentare questo. E che non se ne possa fare a meno». 

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