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Slow Manifesto: il desiderio sotto pressione alla Galleria A plus A di Venezia
Mostre
“Product, price, place, promotion”: si tratta della forma estesa delle quattro “P”, sintetizzate nel 1960 dal professore E. Jerome McCarthy all’interno del testo Basic Marketing. Il saggio schematizza e connette due pulsioni, l’una riferita al produrre e l’altra al desiderare, incastrandole insieme al fine di creare una formula ripetibile che ne domini i valori. Ad oggi la reciprocità di questi impulsi sembra aver creato qualche guaio, alimentando esponenzialmente la crescita incontrollata della società del consumo. Il paradosso del sistema dell’arte contemporaneo, contemporaneamente libero e asservito alle quattro “P”, sfuma nel momento in cui l’arte stessa inizia a riflettere sulle proprie dinamiche, interne e non solo, incarnandosi in uno strumento critico destinato a inabissarsi oltre i confini dell’abitudine.
La mostra Slow Manifesto, allestita presso gli spazi della Galleria A plus A e curata dai partecipanti alla 32esima edizione del Corso in Pratiche Curatoriali e Arti Contemporanee della School for Curatorial Studies Venice, inscena un cortocircuito, esplorando tramite le opere in mostra le possibili declinazioni del desiderio riferito agli esiti della macchina capitalista.

Gli artisti italiani e internazionali selezionati dai curatori (Riccardo Benassi, Thomas Braida, Nina Ćeranić, Numero Cromatico, Petra Cortright, Sylvie Fleury, Esther Gamsu, Lauren Lee McCarthy, Jon Rafman e Rafaël Rozendaal), contribuiscono alla creazione di un dibattito corale intorno alle dinamiche del condizionamento di un desiderio che, lungi dall’esistere nella sua forma pura e sospirata, è stato trasformato in una moneta di scambio.
A seguito delle pressioni sociali la soggettività crolla: le brame, confezionate a tavolino da un rodato meccanismo esterno, smettono di rientrare nell’ottica del bisogno delineandosi piuttosto come volontà simulate. E in questo caso l’arte accorre in aiuto smascherando la struttura del sistema pubblicitario, eternizzando il frame di un reel, ridando valore a oggetti di seconda mano e proponendo una fuga, attraverso il travestimento, da algoritmi e proposte targettizzate che vedono il singolo come un bersaglio.

L’allestimento della mostra si propone di inscenare due ambienti opposti: al piano terra vi sono bombardamenti mediatici e conseguenti soluzioni, mentre il primo piano offre un ambiente catartico e meditativo molto più semplice, raggiungibile attraverso un distacco anche fisico costituito in questo caso dalle scale della galleria. Le aperture offerte dalla configurazione strutturale del primo piano, utili a sbirciare la situazione proposta al piano terra, aiutano a riflettere sul sentimento di velata estraneità che si crea osservando la vita dall’alto, invitando gli spettatori della mostra a ragionare sull’immediata sensazione di sollievo. Il momento dell’inaugurazione in questo senso è stato rappresentativo: il calore e la folla presenti in corrispondenza dell’ingresso della galleria hanno ceduto progressivamente il passo a un ambiente fresco, scuro e solitario, in cui schermarsi dagli stimoli proposti dalla prima parte dell’allestimento.
Nonostante la volontà di ricostruire un ambiente denso di stimoli sia frutto di una chiara scelta curatoriale, i lavori al pianterreno sembrano soffrirne, meno valorizzati rispetto agli spazi liminali dedicati a ospitare le opere di Rozendaal e Rafman. Il concept della mostra si basa comunque su una riflessione urgente che viene adeguatamente approfondita, in particolare grazie all’utilizzo di medium e linguaggi espressivi tra loro molto diversi.
