25 marzo 2013

Arte ed Etica/1

 
Parola oggi abusata, l’etica. Ma qual è il rapporto che si instaura (se si instaura) tra questa e l'arte? E perché, non solo è lecito porre questo legame ma, forse, è addirittura, necessario? La risposta, probabilmente, sta nel venir meno della funzione imitativa della realtà da parte dell’arte. E nel suo essere capace di "farsi reale". Ecco, di seguito, la prima parte di questa riflessione intorno alla parola più in voga dell’anno

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Avrete senz’altro notato come negli ultimi tempi, in evidente coincidenza con l’acuirsi della crisi economica e politica, ci sia stato un eccezionale aumento sui media dell’uso della parola etica. Naturalmente la cosa non sorprende. Gli interrogativi e le invocazioni etiche arrivano quando non è proprio più possibile farne a meno. Così se ne sono sentite di diversa natura più o meno filosofica o anche di semplice buon senso. In ogni caso se etica non è stata considerata la parola dell’anno 2012, è molto probabile che lo sarà nel 2013. Più una sensazione che una previsione, naturalmente.
Cercando di non annoiarvi troppo, provo a partire dal classico inizio filologico.
Com’è noto, il termine etica deriva da quello greco ethos. Fu Cicerone che tradusse in latino questa parola con l’aggettivo moralis-e, derivandolo da mos, moris (costume, usanza). Tra i due termini, quello greco e quello latino, originariamente non c’erano sostanziali differenze. Entrambi indicavano le possibili riflessioni sui comportamenti e sui modi con cui l’uomo agisce nel mondo. Tra i primi a distinguere tra etica e morale fu Hegel (in Lineamenti di filosofia del diritto, 1820, pubblicato in Italia da Laterza nel 1996) che appunto parlò di moralità (Moralitat) e di eticità (Sittlichkeit), dove quest’ultima era ricondotta al significato originario greco, ed in particolare a quello aristotelico dello ethos, che è relativo allo stare, all’abitare in un luogo, che significa anche seguire le tradizioni che vi insistono e grazie alle quali, almeno in parte, si forma il carattere dell’individuo. Nel Libro II della Etica Nicomachea, Aristotele infatti afferma: «Di due tipi è, pertanto, la virtù: dianoetica ed etica: quella dianoetica trae in buona parte la propria origine e la sua crescita dall’insegnamento, cosicché necessita di esperienza e di tempo; la virtù etica, invece, deriva dall’abitudine (ethos), dalla quale ha preso anche il nome con una piccola modificazione rispetto alla parola “abitudine”».
 
Aristotele fonde dunque due parole che hanno sfumature leggermente diverse. Sovrappone cioè la parola ethos con la e lunga della eta (ήθος), che appunto significa essenzialmente carattere, con la parola ethos che inizia invece con la e breve, la epsilon (εθος), di origine più arcaica, che invece significa appunto abitudine e tradizione del luogo. Ma a parte queste differenti sfumature di significato, la questione essenziale che viene fuori da queste osservazioni sull’origine del termine etica è il doppio soggetto che ad essa fa riferimento, e cioè l’individuo e la collettività in cui è e che naturalmente risiede in un luogo determinato. 
Partiamo dunque da questi elementi per ragionare sull’idea di etica nell’arte attuale. Anche se in effetti la prima domanda che non si può proprio evitare è: ma che c’entra l’arte con l’etica pubblica, la morale privata, o viceversa? 
Ogni volta che negli ultimi tempi, ormai da più di un paio d’anni, mi è capitato di lavorare ad una mostra, di scrivere un testo o un articolo in cui la questione dell’etica risaltava con una certa chiarezza, non è praticamente mai successo che qualcuno mi abbia rivolto domande del tipo, “si vabbè… ma che c’entra l’arte con l’etica?”. 
E sì che me l’aspettavo. Eppure con mia grande sorpresa vedevo solo la gente annuire. Chissà cosa pensano davvero di questa cosa? Mi domandavo e mi domando. Solo alcuni, i più avvisati, come si dice, dopo avermi squadrato mi dicevano: “ah però! Bella gatta da pelare ti sei preso”. 
Cercavo allora di capirne di più, ma il massimo che ottenevo era: “no, intendevo dire che l’etica è un argomento impegnativo”. “Si è vero – rispondevo io – ma intendi dal punto di vista filosofico, o da quello della sua individuazione nell’opera?”. “Un po’ da tutti i punti di vista”. E la cosa finiva più o meno li.
Da tutto questo ho ricavato due convinzioni. 
La prima è che evidentemente non c’è nessuna pregiudiziale negativa all’associazione tra arte ed etica. 
La seconda, che anche se sembra inficiare la prima, in realtà né da una spiegazione, è che quando si parla di etica si ottiene in generale un consenso rispettoso. Come se a solo nominarla l’etica determinasse qualcosa di positivo a prescindere. Ovviamente non è così. Esistono etiche condivisibili ed etiche che non lo sono per nulla. I comportamenti che sono etici, che cioè corrispondono ad un codice morale individuale e condiviso da una collettività, ad esempio quella fascista, non lo sono affatto per me che non accetto nulla di quell’etica e dei comportamenti che ne derivano. Tutto è relativo, naturalmente, e niente lo è più dell’etica. È chiaro. Com’è altrettanto chiaro che quest’atteggiamento di profonda riverenza verso l’etica è la semplice conseguenza del fatto che sia considerata come un elemento decisivo per tutto quello che siamo e che facciamo. E quindi, ovviamente, anche per e nell’arte. Ma tutto ciò non spiega nello specifico perché e come l’etica sia divenuta oggi una condizione propria dell’esperienza artistica. 

Proviamo a cambiare il punto di vista. Per farlo la prima cosa sulla quale è utile riflettere riguarda la perdita di efficacia della riflessione estetica nei confronti dell’arte, che naturalmente è stata determinata dal depauperamento dell’intrinseco carattere estetico dell’arte stessa, e che è il risultato principale della perdita della sua capacità e funzione mimetica. L’idea platonica dell’arte come imitazione della realtà (Libro X della Repubblica), ha infatti determinato per millenni una funzione dell’arte e un principio di conoscenza della stessa di tipo sensibile, cioè estetica. La perdita di questa condizione ha comportato necessariamente un diverso rapporto dell’arte con la realtà, non più appunto di tipo imitativo, ma di partecipazione esperienziale ad essa, e spesso nel suo stesso farsi. 
Guardando indietro, al Novecento, il secolo lungo il quale avviene questo graduale e difficoltoso mutamento, tutti pensiamo giustamente al rapporto nuovo con la realtà che stabilisce Marcel Duchamp con il ready made, anche se la consapevolezza di una diversa relazione tra arte e realtà è molto più ampia. Mi vengono in mente ad esempio le parole di Picasso che dopo pochi mesi aver finito di dipingere Guernica nel 1937, a Parigi disse ai tedeschi che quel quadro non l’aveva fatto lui, ma loro. La forza della battuta, diventata leggendaria, dichiara un farsi del reale nell’opera d’arte e viceversa, che testimonia un passaggio irreversibile persino della pittura da una condizione di rappresentazione a quella di un’inedita immedesimazione con la realtà. Ed è proprio in questo diventare reale nel reale, in un modo che non è nemmeno lontano parente del realismo classico, che l’etica trova ragioni decisive nella definizione della funzione e nel ruolo dell’arte. 
La prima conseguenza di questa considerazione è che se l’arte diventa reale nel reale, assume su di sé una serie di condizioni della realtà in cui appunto si posiziona. Tra queste c’è naturalmente anche il senso delle “abitudini” del luogo, che inducono la tipologia etica. Se state pensando che un’idea così determinata di luogo oggi non abbia più senso, anche e soprattutto nella determinazione etica, state ragionando ancora su un’idea di globalizzazione che questo ultimo quindicennio ha ampiamente ricondotto a dimensioni ben più ridotte. Vivere a Roma o a Berlino, ad esempio, era ed è molto diverso che vivere a Teheran o a L’Avana. 
Non di meno la tipicità del luogo è un elemento decisivo anche nell’elaborazione dell’opera d’arte. Più che al vecchio stereotipo del genius loci, si rifletta a questo proposito su come sia diventata centrale la pratica del site specific nell’arte attuale rispetto a quel lontano primo caso del 1970 realizzato da Michael Asher nella Art Gallery di Claremont in California. 
Dalla specifica relazione con lo spazio e conseguente costruzione dell’opera, si è passati alla relazione più articolata e complessa con il luogo, e quindi con le sue “abitudini”, in cui si trova il temporaneo contenitore dell’opera. È proprio questa relazione, che si modifica con il mutare dello spazio e del luogo, che crea quella continuità di senso tra opera d’arte e mondo e che rende possibile quell’appartenenza dell’opera alla realtà. Ed è qui, proprio sul piano della realtà che s’incontrano arte ed etica. In questo diretto partecipare alla realtà, l’opera assume su di sé quelle condizioni etiche che desume appunto dal luogo in cui è, ma che è anche parte della sua storia come conoscenza del mondo.

2 Commenti

  1. La storia dimostra quanto la cultura e la pratica artistica abbiano influenzato le scelte esistenziali degli individui e il destino politico delle collettività. Le diverse concezioni del mondo si basano su elaborazioni che affondano le radici nella filosofia, nella letteratura e nelle arti in generale. Le trasformazioni del pensiero si riflettono sul destino del mondo, perché tutto ciò che gli uomini costruiscono è stato prima, in un modo o nell’altro, immaginato. Ciò vale per gli sviluppi positivi e per quelli negativi nell’evoluzione della società: le utopie e le distopie, frutto di un pensiero condiviso, hanno in molte occasioni agito parzialmente sul reale, modificandolo.
    La realtà può quindi inseguire la fantasia, ma immaginazione e azione si collocano su due piani quasi sempre distinti e paralleli, che spesso si sfiorano dando l’impressione della convergenza, senza mai tuttavia potersi incontrare e fondere pienamente. L’arte rincorre la perfezione e facilmente supera la realtà nel momento in cui rinuncia alle forme naturali per investigare le potenzialità del suo linguaggio. Allora entra nel regno del pensiero, del concetto puro, faticando per rimanere in equilibrio e non perdere di vista la corporeità. Questo esercizio sicuramente rende migliore l’uomo, ne espande le potenzialità, gli consente di acquisire competenze che tornano utili non solo sul versante spirituale, ma anche nella vita terrena e quotidiana. Tuttavia, se la pratica artistica fosse limitata al rapporto con il mondo, se non ci fosse differenza tra creare un’opera d’arte e agire nella realtà, tra fruizione artistica e esperienza del mondo, verrebbe meno il senso stesso del fare arte. Immaginare è esperienza differente dall’avvertire con i sensi.

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