24 marzo 2013

Bianco come la neve Buio come la lunga notte del Nord

 
Evgeny Antufiev, tra sciamanesimo e famiglia, polveri e altari. Ecco una panoramica della “prima visione” italiana dedicata al giovanissimo artista russo, alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia. Dove lo spettatore può entrare a sbirciare un universo di connessioni e rimandi, e volte molto barocco. Ad una condizione: che il passo sia lieve e silenzioso, come su un lago ghiacciato

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Twelve, wood, dolphin, knife, bowl, mask, crystal, bones and marble – fusion. Exploring materials. © Evgeny Antufiev

Il buio è la condizione che accompagna per diversi mesi l’anno i Paesi del Nord. Non fa eccezione Kyzyl, piccolo centro nella Siberia meridionale, nella regione di Tuva, ai confini con la Mongolia, ma ancora in territorio politicamente russo. In alcune zone della regione il permafrost è quasi perenne, e nei periodi più freddi la temperatura scende fino a trenta gradi sotto zero. Una terra dove lo sciamanesimo, con il buddhismo lamaista, è la religione più frequentata, e da dove arriva Evgeny Antufiev, per la prima volta in Italia, alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia, dove resterà fino al prossimo luglio. Con una mostra che ha un titolo alquanto bizzarro, come bizzarro è lo stesso Evgeny, giovane allampanato, nato nel 1986: Twelve, wood, dolphin, knife, bowl, mask, crystal, bones and marble – fusion. Exploring materials.
Un’indicazione già piuttosto precisa di quello che si trova nelle sale per le esposizioni temporanee dello spazio, e che definisce attraverso l’associazione di lemmi, indicanti anche elementi molto contrastanti, ma di cui molti hanno a che fare con la storia della scultura, una mostra-ricerca che è una sorta di Matrioska, giusto per restare in tema russo. E che “connette”, una delle parole più usate dallo stesso Antufiev durante la presentazione del progetto, l’opera a quella che è la vita dell’artista, ai suoi riferimenti e al suo sguardo, nonché il paesaggio in cui si trova ad operare. 
Evgeny Antufiev, Untitled, 2010, fil di ferro, stoffa, colla, denti di cane e di lupo / wire, fabric, glue, dog’s and wolf’s teeth © Evgeny Antufiev

Già, perché elemento fondamentale di Antufiev è che vive per circa metà dell’anno ancora a Kyzyl, mentre nei restanti mesi si sposta a Mosca. Nessuna New York all’orizzonte, nessun Occidente che possa in qualche modo dimostrare, invece, la profonda coerenza di un lavoro molto connotato dal contemporaneo dell’Ovest del mondo. Ma che mantiene intatta una luminosità e una freschezza che sarebbe interessante poter definire “sovietica”, forse ortodossa più che sciamanica. E che in questo caso confermerebbe la teoria empirica del titolo della mostra: in alcuni momenti, nel lavoro di Antufiev per Maramotti, è molto forte un’aura barocca, imperiale e maniacale. Ridondante nella raccolta di ninnoli, piccoli oggetti, scatole che contengono elementi trovati o presi dalle vite della famiglia dell’artista, scampati all’oblio dalla dimensione dei ricordi, ma rimessi in circolo nel presente a parlarci di quello che è un universo di relazioni e connivenze, dove si mette in scena una personalissima creazione demiurgica di un mondo, quella dell’uomo-artista, con l’utilizzo di capelli, ossa, stoffe, cristalli, polveri “magiche” di delfino, animale in qualche modo totemico nell’immaginario dell’artista, che compongono un’esplorazione dei materiali a 360 gradi.
Evgeny Antufiev, Untitled, 2012. Plexiglass, stoffa, osso di lupo, pelle di serpente / plexiglass, fabric, wolf’s bone, snakeskin. © Evgeny Antufiev

Ma l’universo di Antufiev è ancora più complesso di quanto appaia: lo dimostrano i suoi pupazzi bianchi, ibridi che ricordano, su un piano formale, la produzione di Louise Bourgeois e che a Reggio Emilia sono esposti in una mostra che è candida come la neve, contrappunto del buio del nord e inaspettato tono per descrivere la vita nel parallelo di Tuva, nella cui produzione rientrano singolarmente anche la signora Nadezhda Antufieva, mamma di Evgeny e caporedattore della rivista “Centre Azii”, e la nonna che ha contribuito con una serie di disegni. Ma anche le parole, e non solo le opere esposte e legate da un flusso continuo di rimandi e indicazioni, sono importanti nell’universo dell’artista. 
Evgeny Antufiev mentre lavora al suo libro / Evgeny Antufiev working on his book. Foto C. Giulia Di Lenarda

Ne è la prova un catalogo che è a sua volta un’opera d’arte, dove i testi che lo compongono sono trasposizioni di dialoghi, indicazioni e dissertazioni sull’arte e del progetto della mostra di Reggio Emilia con amici e familiari, nonché con critici e curatori che hanno avuto rapporti forse un po’ “conflittuali” con Evgeny, anche a proposito delle modalità di “osservazione” richieste nei confronti delle opere: a Reggio non si può entrare nello spazio espositivo senza aver indossato appositi calzari bianchi, quasi a sancire la sacralità di un’azione, e la volontà da parte di Antufiev di mantenere “puro” un ambiente che è in qualche modo è appendice della sua stessa vita. L’impressione, talvolta, tra le sale della Collezione Maramotti, è proprio quella di essere entrati in un sogno, in un personalissimo mondo parallelo. Le opere vivono una propria esistenza, certo, ma in questo caso hanno un cordone ombelicale che non si può recidere, perché il ruolo dell’artista qui non è solo quello di creatore, ma anche di catalizzatore di un mondo che, privato della sua esistenza, risulterebbe perso. «È necessario accogliere le ossa del mito nella propria carne, inglobarle nel proprio scheletro, per poterne avvertire in pieno l’impatto radioattivo. Questo determina una peculiarità nei rapporti con lo spazio e con la materia» scrive Antufiev. E non potrebbe essere diversamente parlando di quell’ecosistema delicatissimo, dove spesso i significanti sembrano autorappresentarsi tra gli stessi oggetti, che è Twelve, wood, dolphin, knife, bowl, mask, crystal, bones and marble – fusion. Exploring materials.

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