25 novembre 2013

La Biennale, una vecchia signora di 118 anni o il vero museo d’arte contemporanea italiano?

 
Chiusa la 55esima edizione, arriva un denso volume che racconta la Biennale dietro le quinte. In presa diretta dal 1962, anno in cui l’autore, Enzo Di Martino, comincia a seguirla con passione e poi attraverso meticolose ricostruzioni d’archivio. Il libro è stato presentato pochi giorni fa da Paolo Baratta e Angela Vettese. Non il solito rito, ma un’occasione per fare il punto sul format Biennale. O sul vero museo d’arte contemporanea italiano

di

Enzo di Martino
L’ultima settimana della 55esima Biennale di Venezia, diretta da Massimiliano Gioni e caratterizzata da un inaspettato full di presenze, è stata anche l’occasione per presentare nella sala al piano terra di Ca’ Giustinian un libro davvero importante, La Biennale di Venezia 1895 – 2013 (Papiro Art edizioni) di Enzo Di Martino.
Giornalista per diverse testate italiane, dal 1980 critico d’arte per il Gazzettino di Venezia, curatore di mostre retrospettive e mostre per la Biennale come quella del Fronte Nuovo delle Arti nel 1988, Enzo di Martino è forse il decano tra i cronisti italiani della Biennale, dall’edizione del 1962 che l’autore ricorda per la sorprendente presenza di Alberto Giacometti. Studioso, militante dallo stile arguto che alterna il piglio documentario a quello interpretativo e giornalistico, Enzo di Martino sembra aver costruito davvero il suo “palazzo enciclopedico” con un volume che, attraversando due secoli di storia dell’arte internazionale (guerre, politiche e padiglioni compresi), offre criteri di riordino e finalmente una visione d’insieme che, seppure in sintesi, per la prima volta garantisce una storia dell’Ente dalla sua nascita sino all’edizione appena conclusa.
Seppure negli intendimenti dell’autore si legga la volontà di disegnare la storia della Biennale nei suoi attuali sei campi disciplinari (arte, architettura, cinema, danza, musica e teatro), il volume presentato – nel tracciare una storia che descrive la sua evoluzione istituzionale da ente a fondazione –  trova nelle arti visive il suo centro di attenzione e narrazione, lasciando intravvedere non solo una predilezione autoriale ma anche un approccio generazionale che dipana, a ritroso nel tempo, la complessità del presente e delle sue contaminazioni artistiche. La Biennale di Venezia 1895 – 2013, somma di lunghe consultazioni dell’archivio ASAC e delle precedenti pubblicazioni scritte da Enzo di Martino su specifici periodi della Biennale, è finalmente un importante regesto che, mescolando gli approcci passionali di chi ha preso parte alla storia delle cose, sopperisce ai necessari limiti di sintesi, nonostante le 253 pagine con una serie di notevoli apparati (elenco degli artisti, delle opere, del numero dei visitatori, assetti organizzativi, partecipazioni internazionali, premi e acquisti, elenco delle mostre, elenco dei padiglioni) che rendono la consultazione del volume uno strumento essenziale per le analisi, le considerazioni e i raffronti che potranno essere scritti.
Ca' Giustinian, Venezia. Presentazione del volume La Biennale di Venezia. Da sinistra Angela Vettese, Paolo Baratta, Enzo Di Martino
Forse anche per questo la sua presentazione a Ca’ Giustinian è stata l’occasione per riunire intorno a un tavolo, dentro una sala gremita di amici a studiosi, Paolo Baratta, presidente della Fondazione La Biennale e Angela Vettese, neo assessore alle attività culturali e allo sviluppo del turismo a Venezia. Un tavolo significativo, dentro il mare delle dissestate politiche culturali del Paese Italia, per la somma di passioni, competenze e managerialità prese a prestito dalla politica per il governo di un territorio e di un ente. Occasione quasi perfetta per la messa a fuoco di alcune fra le linee guida e gli intendimenti di Baratta che, nel ricordare lo stato di obsolescenza materiale, cultura e gestionale della Biennale all’epoca della sua prima chiamata a Venezia (1998-99),  traccia le fondamenta del suo rinnovamento nella direzione dell’attualità. 
Legando tra di loro le riforme precedenti, Baratta contrappone alla storica drammaticità delle commissioni e della nomina del curatore del Padiglione Italia, la chiamata di un unico direttore artistico con il compito di accogliere dentro una grande mostra – la Documenta che è biennalmente nel cuore di Venezia – la complessità visuale che chiude il XX secolo. Si ripercorre così nel 1999 l’avvio di questo format – passato poi a tutti gli altri settori della Biennale – con la chiamata di Harald Szeemann e l’utilizzo dell’intero arsenale. Dentro un percorso parallelo Baratta racconta i passaggi che hanno condotto all’attuale modello organizzativo della Biennale che, da ente parastatale a fondazione, unisce le qualità del pubblico a quelle del privato garantendo alla nuova gestione incentivi, flessibilità e un consiglio di amministrazione passato da 16 a 5 persone. 
Massimiliano Gioni, Foto Italo Rondinella
Poi una evidente soddisfazione per il successo della più giovane mostra della Biennale, quella di architettura, anticipata per presupposti di interesse nel 1972 con un’esposizione dedicata a quattro progetti mai realizzati per Venezia – quelli di Louis Khan, Le Courbusier, Frank Lloyd Wright e Carlo Scarpa –  proseguita nelle intenzionalità con l’incarico dato a Vittorio Gregotti nel 1973 come direttore della Biennale Arti Visive e Architettura, ma stabilita come settore autonomo con Paolo Portoghesi  solo nel 1982. Diretta da Rem Koolhaas nella prossima edizione, sembra oggi aver raggiunto, a soli 32 anni dalla sua fondazione, la reputazione del più importante e internazionale evento dedicato alla disciplina. Su questi percorsi e considerazioni sono tre le scommesse verso il futuro su cui si espone Baratta: la necessità di innescare un rinnovato processo di senso e di relazioni tra arte, architettura e società civile; la responsabilità della Biennale (non una fiera, non una mostra, non un evento) nel corrispondere alle aspettative di un pubblico inteso come soggetto privilegiato di ogni attività, la necessità di rappresentare la complessità attraverso processi di ricerca in grado di indagarne e restituirne direzione e senso. 
Uno sguardo che segna un passaggio generazionale, più distaccato ma insieme lucidamente orgoglioso è quello sulla Biennale emerso invece dalle parole con le quali Angela Vettese ha voluto sottilineare l’importanza del volume di Di Martino per la sua ricostruzione di avvenimenti e dati che ci fanno riscoprire non solo la complicazione storica dell’istituzione culturale ma anche la sua inaspettata capacità di risarcire ogni declino mediante spostamenti o capovolgimenti. Sono più recenti gli esempi rintracciati da Vettese, tra questi le corderie allestite da Paolo Portoghesi nel 1980 dove emerge per la prima volta la fine del modello monoculturale grazie alla rappresentazione di un dispositivo che non è più unitario, ma capace invece di esprimere una complessità ricca di convivenze ed incroci. Oppure il processo di risalita che è seguito al convegno di Robert Storr del 2005 (che anticipa il suo incarico per la direzione artistica del 2007) nel quale la Biennale di Venezia, parallelamente alla proliferazione globale del suo format, è letta come come modello superato, incapace di rinnovare la sua identità e inefficace rispetto ai suoi obiettivi, anche a causa della sua struttura per Padiglioni Nazionali. 
Paolo Baratta foto di Alvise NicolettiAngela Vettese

Secondo una riflessione altre volte ribadita, Vettese sembra invece aggiudicare alla Biennale un ruolo primario proprio grazie a quelle strutture che ne rafforzano unicità ed efficacia: gli stessi Padiglioni Nazionali, elementi centrali e autonomi in grado di bilanciare la qualità delle edizioni così come di sollecitare il cambiamento e in parallelo la multidisciplinarietà che bene risponde alla chiusura del pensiero unico e sposta l’attenzione sugli effetti e sulle pratiche della complessità. Una sola considerazione finale, nello stile delle sue efficaci e a volte taglienti sintesi, sembra aver spostato la polarità critica e giornalistica di Angela Vettese verso l’attualità del suo nuovo ruolo politico: «La Biennale di Venezia è il nostro vero museo di arte contemporanea in Italia. Anche se ci sono tanti musei di buona volontà, è l’unica realtà che abbiamo, l’unica eccellenza nella arti contemporanee». 

Lascio infine alle parole di Enzo Di Martino chiudere il racconto di questo appuntamento che si è svolto sotto la pioggia autunnale di una Venezia abitata dai fantasmi che si muovono nelle fotografie di una Biennale su una carta lunga 118 anni e dentro le lunghe liste di commissarie e Leoni d’Oro il cui ricordo comprime in maniera stupefacente la storia dell’arte. 
Locandina della prima Biennale di Venezia
«Quando ho iniziato a interessarmi della Biennale non esisteva un vero archivio, o meglio l’archivio era in una condizione disastrosa, così sugli scaffali aperti si trovava ogni sorta di materiale. Un giorno, per esempio, ho trovato un rotolo di carta non schedata che era un dipinto di Joan Mirò, avrei potuto portarlo via e mi sarei comprato un appartamento. Oppure c’erano i libri con le litografie originali di Braque a scaffale aperto così come nei faldoni dell’archivio di Ca’ Pesaro trovavo le lettere originali di Boccioni e le bollette della luce. L’unico vantaggio era che abitavo tra Ca’ Pesaro e Ca’ Corner della Regina (ieri archivio della Biennale, oggi sede della Fondazione Prada) così il viaggio per andare nei luoghi di lavoro era tra i due e i tre minuti e gli addetti mi lasciavano lavorare sino alle 14, un’ora in più, con loro ma a porte chiuse. Sono stato obbligato a scavare, ma la mia anima rimane quella del cronista, consapevole che le testimonianze vissute sulla propria pelle si portano dentro un’interpretazione critica figlia del proprio tempo. Io vengo da altri studi e ho cambiato vita proprio per l’arte: sono abruzzese, ho fatto l’accademia navale e credo di essere l’unico caso di un giovane tenente di marina che si è dimesso da un giorno all’altro semplicemente perché una volta arrivato a Venezia mi sono sentito a casa. Così dopo due anni di permanenza in laguna, ricevuto l’ordine di ripartire per Taranto, in un pomeriggio e una notte ho scelto di non partire più. Lasciando Venezia avrei perso tutto ciò che avevo intravisto. Questa è la mia storia e il mio profondo legame con la Biennale»

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