26 ottobre 2012

La storia di Jeff l’americano e dell’elefantino Maxxi

 
La storia di Jeff l'americano e dell'elefantino Maxxi di Giorgio Galotti

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Ippocrate sosteneva che dietro al termine “crisi” si celasse un problema più grande, non solo un momento di speranze naufragate nel nulla ma anche, e soprattutto, un momento culminante di una grave malattia, da cui si sarebbe guariti solo attraverso un radicale cambiamento degli stili di vita, della quotidianità, di una revisione dei rapporti umani e del rapporto con la cultura. Quella stessa madre Cultura che oggi, agli esordi dell’attuale crisi, fu bistrattata attraverso tagli repentini e accantonata in attesa di tempi migliori.

Da questo principio cardine si sviluppò quella che oggi a noi risulta come il grande esempio di crisi di un sistema: la crisi economica del 1929, che dagli Stati Uniti si sviluppò a macchia d’olio nell’intero pianeta, generando un evento rivoluzionario e periodizzante della storia del Novecento, che aiutò i nostri avi a capire gli sviluppi della Prima e Seconda Guerra e che oggi ci aiuta a riflettere sulla grande simpatia degli intellettuali del tempo verso il sistema Sovietico della Russia, rimasto sostanzialmente immune alla crisi e che favorì semplicisticamente l’ascesa al potere di Hitler, in quella Germania economicamente rafforzata dalla debolezza degli Stati Uniti.

Dire che ci sia qualche similitudine con quel passato sarebbe voler travisare questo momento in modo catastrofico. Sarebbe voler augurare ad Angela Merkel le stesse sorti di Adolf, sarebbe voler risollevare una pietra che fa fatica a chiudere un passaggio col passato, ma soprattutto sarebbe voler metter bocca in una problematica socio-politica a cui gli esperti lavorano da millenni.

Per questi e più motivi a noi operatori culturali non resta che limitarci a descrivere quello che si sta generando oggi nel sistema a noi caro, quello dell’arte più volte deputato a svolgere il ruolo di cartina tornasole di problemi più ampi. Quando l’arte sta male è molto probabile che qualcos’altro non vada.

E così tornando al ’29 quello che accadde, e che a noi interessa, fu il clima di fermento che venne fuori dal cinema, dalla musica, dalla politica del New Deal e delle idee in campo letterario. Charlie Chaplin e Frank Capra, Duke Ellington e Billie Holiday, John O’Hara e Howard Fast, solo per citarne alcuni, sono il risultato del rimescolamento sociale che si stava vivendo in quegli anni, portando alle rivoluzioni cinematografiche, musicali e letterarie di cui sentiamo ancora l’influenza oggi. Nell’arte e nella moda, per dirne una su tutte, è del 1930 l’intuizione di Lola Prusac, che lavorava per Hermes, di utilizzare le linee nere e i quadrati colorati delle opere di Mondrian per creare una nuova linea che rivoluzionò la moda. Oggi la lezione è stata recepita da Louis Vuitton e Murakami.

Ma in questo clima di “terrore crisi” che passa attraverso il termine “commissariamento”, mentre negli Stati Uniti pensano a come sfruttare questo periodo a proprio favore, nell’Italia post-berlusconiana che a furia di giocare al rialzo per anni si trova oggi a doversi rialzare, si decide di affidare il luogo simbolo della rinascita culturale nazionale, il MAXXI, proprio a un americano: Mr. Jeff Koons.

E questa volta il buon Jeff, che ha saputo leggere meglio di altri la sua generazione, ereditando il celebre posto precedentemente occupato da Andy Warhol, più che l’onore del comandante che lancia la carica, avrà l’onere e il ruolo di un crick per quel ‘big truck’ italiano fermo da mesi nella corsia di emergenza.

Quella delle sorti del Maxxi è una storia tutta italiana affidata a un artista tutto americano.

Un museo che ricorda vagamente la visione di un enorme pachiderma sfinito all’interno del recinto di uno zoo, dove bambini festanti appoggiati alla ringhiera, con una mano tengono il loro palloncino colorato e nell’altra una manciata di arachidi, pronte a essere gettate sul muso della bestia dormiente, con la speranza di vederlo rialzare e spruzzare acqua dalla sua lunga proboscide dal valore di circa 150 milioni di euro.

Quegli stessi palloncini colorati che avranno il delicato ruolo di ripopolare Piazza Boetti non solo di mamme e bambini, ma anche di visitatori accorsi da tutto il mondo. Visitatori che non hanno avuto la fortuna di vedere quella stessa mostra, più completa e forse più smagliante alla Fondazione Beyeler di Basilea, dove zio Jeff in quei giorni vagava per i prati tra una vacca svizzera e un’intervista.

E la mostra si racchiude tutta nel sorriso di quel bambino americano che alla Fondazione Beyeler accoglieva il pubblico: un Jeff Koons bambino che impugna la sua matita colorata che non si preoccupa di sapere che quell’istantanea sarà venduta diversi anni dopo a tutti i musei del mondo. Quello stesso Koons a cui a scuola avevano insegnato a difendere la propria bandiera Stelle e Strisce e portarla nel mondo in segno di benessere. Quel Koons che negli anni ’80 aveva celebrato gli aspirapolvere Hoover come oggetti da musealizzare in pieno stile “duchampiano”. Quel Koons che oggi, a quasi 60 anni, arriva a dare nuovo ossigeno al pachiderma romano famoso in tutto il mondo per le sua pelle grigio-poverista, quel Koons che proverà a restituire allegria con palloncini di acciaio colorato, lollipop su tela e statuette sorridenti, portandoci ancora una volta a credere al sogno americano dello “YES WE CAN”.

E chissà che tutto questo “pop-ulismo” possa portare il bestione a rialzarsi e a rivedere il mondo a colori, sperando che quelle noccioline di ceramica dorata non servano solamente a tenerlo in vita ma possano aiutarlo a imitare Dumbo, anche perché, se così non fosse, il buon zio Jeff potrebbe raccontare ai suoi nipotini che a Roma, dopo il Colosseo, c’è un nuovo reperto archeologico da visitare.

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