10 ottobre 2020

Folgorata da Tiresia: la regista Giorgina Pi ci parla del suo teatro antagonista

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Al limite tra i sessi, ricercando l’identità: è il/la Tiresias in programmazione all’Angelo Mai di Roma. Ce ne parla la regista, Giorgina Pi

Bluemotion, Giorgina Pi e Gabriele Portoghese, Tiresias. Ph. Lau Chourmo

Giorgina Pi, regista cui va il merito di aver portato in scena testi di autrici ruvidamente antagoniste della scena britannica, ci parla di Tiresias, presentato al Santarcangelo festival 2020, Short theatre e, dal 23 al 25 ottobre, in scena con nuove repliche all’Angelo Mai.

Chitarra elettrica e classici greci: l’intervista a Giorgina Pi

Femminista, attivista politica, dottoranda in comparatistica tra L’Università de L’Aquila e Paris 8. Qual è il contributo delle diverse anime sul tuo lavoro di ricerca drammaturgica?

È «Credo che queste anime vivano di continuo insieme nutrendosi a vicenda. Si tratta di una simultaneità che appartiene a tutti noi e che bisogna imparare a coltivare, ad averne cura. È difficile per me capire dove inizi “un’anima” e finisca l’altra. L’attivismo nasce da una mia indole, ma certamente anche dallo studio, in particolare quello del pensiero femminista, studio nato mentre scoprivo il contemporaneo accanto allo studio dei classici e della storia del teatro della danza e del cinema al Dams. Penso a quando, adolescente, ho cominciato a fare teatro al liceo e, poi, l’assistente alla regia. E subito mi accorgo che alcune delle persone che c’erano allora continuino a esserci, fanno parte di Bluemotion, collettivo di performer, registi, musicisti e artisti visivi, e hanno da anni vissuto la storia dello spazio Angelo Mai, fin dalla sua prima occupazione. Credo che il contributo decisivo nasca dalla capacità di queste anime di ascoltarsi di fronte al lavoro, per me minuzioso, della ricerca. Intendo dire “cosa per te è vitale dire/ascoltare?” “perché?” “come?”. Queste domande, il rigore dell’indagine nella loro essenza, sono identiche e imprescindibili per il teatro, la ricerca universitaria e la politica».

Gabriele Portoghese in Tiresias, Spazio WeGil nell’ambito della rassegna Short theatre 2020, Roma. Credits Claudia Pajewski

Dopo Settimo cielo di Caryl Churchill e Wasted di Kate Tempest hai deciso di lavorare su un altro testo della Tempest, Hold your Own. Quanto è attuale il mito di Tiresia ai giorni nostri e quali elementi del lavoro della scrittrice ti hanno folgorato?

«Mi sembra che Tiresia contenga molte delle istanze delle principali fragilità contemporanee. Fragilità, non debolezze. Mi riferisco a nuclei di potenza spesso attaccati perché non conformi. La transessualità, la cecità, la sessualità delle donne, la vecchiaia e, soprattutto, la veggenza intesa come capacità di leggere la complessità e di darle voce. Tempest è poeta, la sua voce risuona. Come ogni poeta resterà al di là delle epoche e degli applausi. Usa in maniera contemporanea un linguaggio antico. Si affida al risveglio di un inconscio collettivo che ha bisogno di essere nominato e frequentato. Entra nel cuore del teatro».

Gabriele Portoghese in Tiresias, Spazio WeGil nell’ambito della rassegna Short theatre 2020, Roma. Credits Claudia Pajewski

Il tuo lavoro Tiresia, interpretato da Gabriele Portoghese, rappresenta un ponte tra i sessi e la ricerca dell’identità. Sul palco la metamorfosi non è solo fisica, Gabriele oscilla tra poesia, vinili da DJ e chitarra elettrica. Quanto è importante per te il legame tra musica e teatro?

«Il nostro tentativo è stato quello di darci l’opportunità di far vivere a Gabriele, Tiresia, di scegliere una strada che fosse oltre la semplice interpretazione, un cammino che ci riguardasse in questa fatica di leggere il mondo che ci portiamo dentro già prima della pandemia. Abbiamo quindi scelto tempi lunghi, studiato molto insieme, abbiamo immaginato io, lui, i musicisti Cristiano De Fabritis e Valerio Vigliar col nostro disegnatore luci Andrea Gallo, cosa Tiresia rappresentasse per noi, in che mondo ci sentivamo immersi trattando questa materia. Che risonanze si attivassero. In quella fase, come sempre accade tra noi, gli elementi creativi convivono. Abbiamo lavorato prima, mentre e dopo il lockdown, in un periodo di cambiamento indecifrabile. La condivisione di tutte le fasi del lavoro tra tutta la compagnia racconta come per me sia imprescindibile il legame tra musica e teatro. Nasco e cresco dentro a entrambe, a volte immagino uno spettacolo a partire da una canzone o da una composizione precisa che riesce a tradurmi un significato che altrimenti non saprei dire. Lavoriamo tenendo insieme le cose da sempre, non saprei farne a meno e sono grata a chi con me abita questi lunghi percorsi».

In un mondo in cui la tecnologia vira verso l’elogio delle apparenze, il “restare se stessi” è forse la più grande rivolta cui è chiamata la società civile e, di riflesso, il mondo dell’arte oggi?

«Restare se stessi attraverso molti passaggi credo sia una questione antica. La metamorfosi, il tornare a sé attraverso molti mutamenti. Sempre problematica e lacerante. Penso alla letteratura antica, ma anche alla fatica che hanno fatto le donne prima di me per essere libere di amare chi volevano quando lo volevano. Penso allo stupido binomio di tradimento/coerenza che si applica quando si manifesta un’altra parte di noi difficile da accogliere per la differenza con la precedente. Certamente la costruzione delle nostre identità online dista molto da tutto questo, ma non giudichiamo troppo i nostri tempi, cerchiamo di capirne piuttosto la complessità e ripartiamo dalle nostre inadeguatezze. Altrettanto penso del mondo dell’arte: una grande banalità si alterna a una potente verticalità. C’è molto da indagare e soprattutto molto da fare affinché le nostre opere non siano mai prive del senso che autenticamente vogliamo dar loro. Trovo, poi, necessario incontrare e scambiare con sguardi che ci nutrano. Per esempio, sono impaziente di andare da spettatrice a fine novembre a Bologna a Divergenti, il festival cinematografico internazionale dedicato all’immaginario trans organizzato dal M.I.T.-Movimento Identità Trans, con la direzione artistica di Porpora Marcasciano e Nicole De Leo».

Gabriele Portoghese in Tiresias, Spazio WeGil nell’ambito della rassegna Short theatre 2020, Roma. Credits Claudia Pajewski

 Quali sono gli ostacoli maggiori che un’artista come te deve affrontare per rimanere fedele a se stessa?

«Sono un’artista con un percorso chiaro credo, comunque non importante o attraente per il main stream e per alcuni circuiti statuari. In un certo senso sono fuori dal mercato, quindi, forse mi confronto con pochi ostacoli di senso, ma con molti materiali. Non intendo dire che questo mi piaccia e che sia d’accordo con un sistema che mal distribuisce il denaro, anzi. Intendo dire che non ho problemi a dire ciò che desidero, a scegliere le persone con cui lavorare, non ricevo imposizioni o “caldi” consigli. Il problema sono piuttosto le condizioni materiali. Parlo di economie, di continuità del lavoro e della possibilità di poterne vivere. Parlo di prendere le stesse paghe degli uomini. Parlo di poter produrre spettacoli dove dare libero spazio alla propria fantasia attraverso mezzi più congrui e paghe più generose per tutta la compagnia».

Potendo scegliere un altro classico della letteratura greca, su quale testo lavoreresti?

«Filottete. Ci sto già lavorando da un po’. Filottete ed Eracle saranno due donne. E con loro Neottolemo e Odisseo. Non vedo l’ora».

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