08 ottobre 2004

Neobarocco forever

 
di christian caliandro

L'occasione è di quelle ghiotte: una mostra -a Siena- dedicata al rapporto tra arte e cultura di massa. Ne parliamo con Omar Calabrese, curatore dell'evento. Il più noto semiologo nostrano, discute la persistenza del concetto di “neobarocco” nella cultura contemporanea, nell’arte e nel cinema, nella letteratura, nella politica, nella moda e nel design. Passando (ovviamente) per la pubblicità. Dai favolosi anni Ottanta ad oggi. Lo spettro del Seicento si aggira per il mondo. Ecco come…

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A 17 anni dalla pubblicazione del suo L’età neobarocca, questa fase si è conclusa o ha conosciuto nel frattempo nuove aperture e declinazioni?
Innanzitutto, va precisato che quel libro parte da un’ipotesi formulata dal formalismo. Nel corso della storia ci sono degli stili che funzionano come modelli universali: classico e barocco non sono dunque degli stili d’epoca datati ed attribuibili ad un momento della storia, ma possono riprodursi con varianti diverse. È da qui che nasce l’idea del “neobarocco”: esso non è un ritorno al Seicento, ma la ricostituzione in certi momenti dati di alcune maniere di comporre formalmente testi ed espressioni.
Detto questo, bisogna allora immediatamente osservare che, nell’epoca contemporanea, il ritornare di certe forme della complessità rappresentate dal barocco è molto legato allo statuto dei media, e quindi una volta aperto il campo, il gusto neobarocco resta quasi certamente permanente, prevedendo alcune varianti interne. Ci possono essere dunque alcuni periodi –tra cui certamente quello attuale– caratterizzati dal “ritorno all’ordine”, con cui il neobarocco, opportunamente variato, convive.

In questa categoria di “ritorno all’ordine”, quali fenomeni artistici inscrive nel periodo dagli anni Settanta ad oggi?
Nell’ambito delle arti tradizionali assistiamo innanzitutto ad un ritorno al figurativo che non è più quello degli anni Settanta (Anacronismo, Transavanguardia), ma un figurativo duro e puro, dominato dalla nostalgia. Un fenomeno che non possiede elementi di rottura, ma che, al contrario, è decisamente reazionario. Lo stesso accade anche in letteratura.

Cosa succede nella letteratura?
Ci sono delle forme letterarie che, essendo la ripetizione di schemi conosciutissimi e quasi stantii, dovrebbero essere definite letteratura di genere e invece vengono considerati come letteratura di primo livello.

Kill Bill
A questo numero faccia dei nomi…

Rischierei di essere un po’ offensivo.

Seguendo il suo ragionamento, come mai lei non include nel “ritorno all’ordine” anche la Transavanguardia italiana o il neoespressionismo tedesco, come suggerisce un’autorevole linea interpretativa inaugurata dal famoso saggio di Benjamin Buchloh, Figures of aggression, cyphers of regression del 1981?
La Transavanguardia, in effetti, non è una ripetizione, una riproposizione: è piuttosto analoga all’uso delle virgolette. Fra la ripetizione acritica di certi fenomeni già visti nel passato e invece il gioco mediante l’uso delle virgolette c’è una grande differenza (anche se la mano dell’artista può essere ricondotta “tecnicamente” a qualche filone). Quando il parallelo architettonico della Transavanguardia, il postmodern della Strada novissima di Venezia (1979) presentava facciate di cartone, la virgolettatura era fortissima e provocava anche degli effetti di ironia. In questi casi direi che c’è una trasformazione del contenuto.

Uno dei tentativi presenti nell’ “Età neobarocca” è quello di distinguere le varie forme di citazione. Nel corso degli anni successivi, la pratica della citazione ha subito a suo parere una trasformazione, un’evoluzione?
Sì. Noto che nel cinema sono emersi recentemente film di massa che, proprio attraverso l’uso della citazione, trasformano radicalmente l’argomento di genere. L’esempio più lampante è Matrix, che spiega Baudrillard (il quale, non a caso, è stato consulente del film) meglio di quanto possa fare egli stesso… Ma ce ne sono altri, come La tigre e il dragone. E Kill Bill di Quentin Tarantino è l’ultimo esempio di questo atteggiamento.

Si può affermare perciò che sia nel cinema sia nell’arte contemporanea si riconosce una tendenza abbastanza corposa che, partendo dalle esperienze del postmoderno “iniziale”, sta sviluppando e trasformando il concetto di citazione?
Certamente sì. Io trovo – lo dico però senza averci riflettuto in maniera abbastanza approfondita – che la caratteristica ultima sia quella di un’erudizione, rappresentata dalla citazione, inserita all’interno di climi popolari, di massa. Questo fenomeno si può riscontrare perfino nella pubblicità, che ultimamente è sempre più “dadaista”. Sembra così parzialmente avverata la profezia di Majakovskij, secondo il quale la morte dell’arte si sarebbe verificata non secondo lo schema hegeliano, ma quando le poesie fossero finite sulle scatole dei fiammiferi.

Nel suo libro parla di un caso specifico di creazione artistica – riferendosi, credo, a Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco e a I predatori dell’arca perduta (1981) di Steven Spielberg – in cui l’uso citazione si spinge talmente avanti che diventa inutile anche lo stesso riconoscimento delle fonti originarie, per cui la citazione è irriconoscibile nella sua identità e al tempo stesso riconoscibile come citazione.
Non solo, ci sono anche dei veri e propri paradossi: brani originali trattate come se fossero citazioni. Dunque questo processo è divenuto, nel tempo, molto evoluto e sofisticato.
Specialmente nelle arti, si nota questo fenomeno citazionista si manifesta sotto forma di pratiche di riuso. Il riuso esiste dagli objects trouvée dadaisti e dai collage tedeschi in avanti, però allora aveva i seguenti scopi: 1. rinnovare il materiale, 2. rappresentare il nuovo mondo, 3. ironia, 4. contestazione. Oggi, invece, l’aspetto più importante è la risemantizzazione degli oggetti, quasi che un oggetto X, se toccato dall’artista, sognasse di essere “un altro da sé”.un servizio molto barocco di Versace

Questo discorso può forse essere collegato, come già accadeva nel suo testo, con i concetti di “distopia” e di “presente perpetuo” (secondo la definizione di Fredric Jameson), che vengono spesso indicati come fondamentali per l’età postmoderna. Dagli anni Ottanta ad oggi, quali possono essere state le conseguenze più vistose di questa condizione?
Come primissima conseguenza, assai preoccupante, c’è quella politica. Nel momento in cui, attraverso questi meccanismi, si perde la memoria storica, succede di fatto che è sempre più facile riscrivere la storia, attraverso meccanismi a volte intenzionali, a volte perfino involontari.
Certi cambiamenti, per esempio, avvengono addirittura nel linguaggio comune: quasi nessuno si accorge di come cambino i termini. Oggi, per esempio, per parlare delle aziende, si usa esclusivamente il termine “impresa”, in cui l’estrema connotazione eroico-positiva fa perdere di vista tutti gli aspetti conflittuali (licenziamenti, lotte sindacali, scioperi): in tal caso si è riscritta – voglio credere in maniera involontaria – una bella pagina di storia.
Questo fenomeno riguarda vicino, ovviamente, anche l’ambito del gusto: perdita dei valori consolidati, scarsa capacità di distinzione tra ciò che ha valore e ciò che non ne ha, possibilità concreta di riscrivere la critica e la storia dell’arte (oggi è molto più facile rispetto a qualche decennio fa), e sempre maggiore possibilità che il critico – come diceva Oscar Wilde – sia l’artista.

Per quanto riguarda il gusto, in occasione del Salone del Mobile di quest’anno proprio il termine “neobarocco” ha contribuito a designare il movimento di reazione, nel campo dell’interior design, al minimalismo predominante nel corso degli anni Novanta. È possibile riconoscere elementi “neobarocchi” nella moda e nel design degli ultimi anni?
Nel campo della moda c’è sicuramente questa tendenza, all’inizio forse non pienamente cosciente di sé, ma oggi sì. La prima volta che dissi a Gianni Versace – ero suo consulente – che era neobarocco, lui quasi si offese! Ci teneva molto infatti a sentirsi classico, mentre già il solo fatto di aver scelto la Medusa come simbolo lo inseriva a pieno titolo nella categoria del barocco.
Nel design, la cosa è molto più consapevole, tanto che le aziende ormai chiedono agli artisti, e non agli architetti, di progettare la loro immagine. C’è quindi un’intenzione esplicita di orientarsi verso la decorazione piuttosto che verso la funzionalità. Un esempio lampante sono le tazzine Illy commissionate non solo a grandi maestri contemporanei, ma anche ad autori relativamente sconosciuti al grande pubblico, come David Byrne, l’ex cantante dei Talking Heads.

Dunque chi oggi parla di ‘ritorno agli anni Ottanta’ non è uno sprovveduto…
Più che di un ritorno si tratta di una prosecuzione, di una continuità. All’interno di questa continuità, c’è ovviamente, come si è detto, posto per le varianti.

A proposito di periodizzazione e di classificazione, nel suo libro il concetto di “neobarocco” sembra vivere una doppia condizione: esso appare infatti al tempo stesso sovrapposto e successivo rispetto all’idea di “postmoderno” così come viene elaborata tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta…
Questo è dovuto ad un problema teorico di definizione. La nozione di “postmoderno” parte dalla riflessione filosofica (con La condizione postmoderna, 1979, di Jean-Francois Lyotard) e cerca di comprendere le nuove linee di pensiero di una società post-industriale fondata sulla speculazione immateriale piuttosto che sulla produzione di merci. Ma quasi subito essa viene distorta e giunge a comprendere fenomeni diversissimi ed eterogenei, la maggior parte dei quali in cerca di una legittimazione e diMiti degli anni Ottanta. Lorella Cuccarini con Manuel Franjo nel 1985 una nobilitazione da ottenere a qualunque costo. All’epoca de L’età neobarocca io volevo tentare, invece, una classificazione più precisa, che partisse da elementi formali.

In conclusione, che situazione vede configurarsi nel prossimo futuro all’interno delle singole arti?
Più che di previsioni, parlerei di speranze. La situazione attuale, come si vede, presenta anche i lati negativi: eccessiva facilità d’espressione, eccessiva pretesa di successo immediato. Il fatto che si vada verso una sempre maggiore sofisticazione lascia forse intravedere un momento in cui sarà nuovamente necessario il saper fare. Questa potrebbe essere una rivoluzione interessante.
In musica, ad esempio, esiste già un barocco musicale ipervirtuoso, che proviene dal free jazz e da altre aree particolarmente complesse. Nelle arti visive, augurerei un’accentuazione nella sperimentazione dei materiali, perché l’artista potrebbe possedere cognizioni tecnico-scientifiche superiori rispetto al passato, tali da permettergli di esplorare nuove dimensioni. Alcuni maestri affermati e giovani artisti (si pensi a Fabrizio Plessi o a certa computer art) dimostrano già una consapevolezza sorprendente nell’uso della tecnologia. Ma anche nell’area del riciclaggio comincia ad esserci una forte rielaborazione dei materiali, che a mio avviso costituisce una maniera assai positiva di immaginare il futuro.

intervista a cura di christian caliandro

A Siena tutta l’arte, secondo Calabrese
La mostra Ipermercati dell’arte, curata da Omar Calabrese ripercorre quella che, fin dai tempi delle avanguardie storiche, è stata una delle tendenze fondamentali dell’arte: tenere in conto la nascente cultura di massa. Il progetto espositivo segue tre fondamentali maniere di rappresentare/presentare gli oggetti di consumo: il puro “ritratto” delle merci (pop art, iperrealismo ad esempio. Nella sezione Il consumo rappresentato); l’ironia: trasformazione delle dimensioni, dei colori, delle forme, in modo da ri-creare, sulla base del già visto e conosciuto, nuovi oggetti estetici (sezione Il consumo ironizzato); la contestazione della merce: artisti che, attraverso i loro mezzi espressivi, criticano e mettono in discussione il modello fondamentale della civiltà industriale (sezione Il consumo contestato). L’evento sarà ospitato dai tre principali centro espositivi della città di Siena (Palazzo Pubblico, Santa Maria della Scala, Palazzo delle Papesse) dal 9 ottobre (inaugurazione ore 18; catalogo Silvana) al 9 gennaio.


ipermercati dell’arte – il consumo ironizzato (la mostra a santa maria della scala)
ipermercati dell’arte – il consumo rappresentato (la mostra al palazzo pubblico)
ipermercati dell’arte – il consumo contestato (la mostra al palazzo delle papesse)


[exibart]

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