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Sargentini e il suo teatro d’arte, il nuovo format espositivo all’Attico di Roma
Arte contemporanea
Dal mare bianco di Pascali, che quasi escludeva lo spettatore dalla galleria di piazza di Spagna, al garage di via Beccaria inondato da 50mila litri d’acqua, fino ai 12 cavalli vivi di Kounellis e allo Zodiaco tangibile di De Dominicis, Fabio Sargentini ha sempre spiazzato il suo pubblico, offrendo eventi più che mostre. Il contesto espositivo è da sempre per lui spazio scenico, non mero contenitore ma strumento di creazione esso stesso, luogo in cui accogliere e includere lo spettatore. D’altronde non poteva essere diversamente per chi come Sargentini si è sempre sentito un artista.
Simile a un regista, da più di 60 anni orchestra gli artisti negli spazi che via via ha gestito, senza però indirizzarne le scelte ma semplicemente diventando loro complice e sodale. Le sue intuizioni espositive sono state anche le sue opere. Regista e spazio scenico, termini che a ben guardare si rivelano quanto mai calzanti, giacché Sargentini con il teatro ha da sempre un rapporto stretto, tanto almeno quanto quello con le arti visive. Sono consegnati alla storia i suoi rapporti con Trisha Brown, Steve Paxton e sopratutto con Simone Forti, quest’ultima conosciuta dopo la tragica scomparsa di Pino Pascali, in un’ideale staffetta amicale.
Arte visiva e teatro, dunque, due aspetti della creatività umana che Sargentini non ha mai visto come alternativi ma complementari, finanche sovrapponibili. Di essi ha sempre valorizzato i molteplici punti di contatto, facendo della transdisciplinarietà un sistematico modus operandi e attuando in galleria sconfinamenti e sinergie.
Ultimo suo esperimento scenico-espositivo in ordine di tempo è Arte da Teatro, format partito lo scorso novembre nel teatro della galleria L’Attico di Roma, con la personale di Rafael Canogar, poi proseguito con le mostre site specific di Stefano Di Stasio e Mario Nalli. La personale di quest’ultimo è ancora in corso. Arte da teatro è un progetto che parte da una singolare specificità dello spazio di via del Paradiso: un piccolo teatro al suo interno. Elemento che riflette le due massime passioni del padrone di casa, da lui oggi fuse più che mai. Teatro in posa e pittura in movimento, le opere e gli artisti avvicendatisi in questa nuova avventura de L’Attico si consegnano al pubblico in una dimensione volutamente ambigua, quasi totalizzante, rendendo più suggestiva l’interazione con lo spazio e più fitto l’intreccio tra arte e vita.

Evento d’esordio la personale di Rafael Canogar (Toledo, Spagna, 1935), artista che Sargentini ha conosciuto nel 1958 alla Biennale di Venezia, nel padiglione spagnolo, tra i primi ad aver attirato la sua attenzione. In quel momento domina l’informale, ma all’orizzonte si profila un cambiamento di rotta radicale. Nel 1964 la Pop Art giunge in Europa. È la Biennale a consacrarla. Canogar è giovane e la figurazione irrompe decisa nelle sue tele: astronauti, incidenti stradali, proteste di piazza, la sua è “pittura di eventi” come l’ha definita Quintavalle.

Dell’evento il pittore vuole anche la materialità. Ed ecco che le figure tra il 1967 e il 1968 si fanno tridimensionali, emergendo dal fondo fino a conquistare lo spazio antistante. Mani, gambe, pieghe di camice e pantaloni, superano la tela andando incontro al pubblico. Complice la grandezza naturale dei soggetti ritratti, tutti senza volto ad indicare una condizione esistenziale generalizzata, le opere abitano lo spazio fingendosi figure tra figure.
Nel teatro, sul palco, un uomo disteso, forse ferito, dialoga con un altro in procinto di essere colpito da un gendarme con il calcio del fucile. Di fronte allo spettatore si dipana la tragedia della repressione. Canogar ha creato le scene mentre Sargentini ha offerto loro una consequenzialità non prevista.

Una figura maschile è anche quella portata sul palco da Stefano Di Stasio (Napoli, 1948), tra i maestri del ritorno alla pittura negli anni Ottanta. È Gaetanaccio, maestro burattinaio romano di fine Ottocento. Con sguardo dolente e schiena curva trascina il suo piccolo teatro, detto il castello, salvandolo da una profonda crepa apertasi sul palco. Simile a un Cristo portacroce, che carica su di sé quello che poi sarebbe divenuto il simbolo della sua fede, allo stesso modo Gaetanaccio salva dalla rovina l’essenza stessa del teatro. La sagoma guarda il pubblico chiedendone complicità e solidarietà, fino a suscitare una riflessione profonda sul futuro delle arti.

Non figura ma elemento naturale, infine, contraddistingue l’installazione “teatrale” di Mario Nalli (Morolo, 1960), tuttora visibile. Nalli è pittore degli anni Novanta, seguito da Sargentini da circa un trentennio, caratterizzato da un particolare ductus pittorico, approdo di una lunga sperimentazione tecnica condotta sul colore, sul supporto e sulla relazione tra essi.

Nel teatro della galleria, una grande onda sembra animarsi sotto gli occhi degli spettatori, resa ancor più viva dal rumore della risacca. La pittura iridescente di Nalli conferisce alle tele una loro peculiare tridimensionalità. Rosa, rossi, blu, viola e verdi si avvicendano in graduali passaggi tonali, dando luogo a paesaggi mentali, immagini siderali o magmatiche, a seconda della nota dominante. Non rappresentazioni ma visioni in cui labile, finanche indecifrabile, si fa il confine tra l’intenzionalità dell’autore e le possibilità costruttive delle pennellate. Un’indagine che dalla superficie si spinge oltre, dentro la pittura, per ingarne in profondità gli esiti materici e le potenzialità formali, con effetti nuovi, talvolta sorprendenti.

Tre artisti differenti per età, tecnica e visione, che negli spazi del teatro de L’Attico si sono avvicendati portando in scena non solo la loro pittura ma la storia stessa della figurazione nell’ultimo cinquantennio. Un racconto senza rigidità, senza accademismi, presentato sul filo dei ricordi, con la naturalezza e l’entusiasmo di chi, come Sargentini, quella stessa storia l’ha vissuta in prima persona, ancora una volta da protagonista.