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L’arte araba del terzo millennio. Intervista a Abdellah Karroum
#iorestoacasa
Emblema della forza primaria dell’universo, il fuoco è nell’immaginario umano un’energia vitale trasformatrice ma anche distruttrice, tuttavia oggi è sempre più associato ai disastri ambientali. Sulla scia degli incendi scoppiati in Siberia, in Amazzonia, in Australia, e in relazione ai mutamenti climatici, il Palais de Tokyo ospita “Notre monde brûle” , ossia un appuntamento con artisti del Golfo Persico e Nord Africa, o collegati a questi Paesi.
Curata da Abdellah Karroum, direttore del Mathaf dal 2013, in collaborazione con lo storico dell’arte Fabien Danesi, la mostra restituisce uno sguardo sui problemi sociali e i conflitti del Medio Oriente, oltre che sulle calamità ecologiche, attraverso le creazioni di una trentina di artisti come Kader Attia, Mounir Fatmi, Shirin Neshat, Otobong Nkanga, Sara Ouhaddou, Bady Dalloul, Monira Al Qadiri, Khalil El Ghrib, Younès Rahmoun, Raqs Media Collective, Wael Shawky, Michael Rakowitz, Danh Vo o Fabrice Hyber.

«Far emergere delle molteplicità di storie contro una visione globalizzata del mondo. Questo mondo frammentato che gli artisti e curatori ci invitano a ricomporre». Ha sottolineato Emma Lavigne, neodirettrice del centro d’Arte Contemporanea parigino, aprendo questa prima parte della stagione, dal titolo Frammentare il mondo, che s’ispira a un’opera di Josep Rafanell i Orra.

I lavori in Il nostro mondo brucia provengono dal Mathaf, l’Arab Museum of Modern Art di Doha che, dedicato alla creazione araba moderna e contemporanea, conta novemila opere provenienti della collezione privata dello Sheikh Hassan bin Mohamed bin Ali Al Thani. Il percorso artistico, che presenta anche creazioni in situ, è una risposta diretta alle urgenze ambientali, e ai comportamenti e alle idee che le hanno generate. Si va dallo sviluppo e all’influenza dell’industria petrolifera e del gas, alla crescita di nuovi centri urbani a scapito dell’abbandono di aree rurali.

L’intervista a Abdellah Karroum
Durante una tavola rotonda animata da Emma Lavigne, Abdellah Karroum ci ha raccontato come a Doha ci si svegli con gli aerei militari che sorvolano le case e la televisione che dà notizie sullo scoppio di incendi nel mondo. Ne abbiamo poi parlato con lui in una breve intervista.

Cosa può fare l’arte che aiuti a far riflettere su tutto ciò che sta accadendo?
«La responsabilità del direttore di un’istituzione, al di là delle scelte artistiche, è mostrare opere che abbiano un senso in qualsiasi parte del mondo vengano viste».
Ci sono affinità tra gli artisti attivi prima della primavera araba e quelli venuti dopo?
«Attraverso dibattiti e manifestazioni, denunciando situazioni d’ingiustizia, le creazioni degli artisti e le loro idee hanno partecipato al risveglio delle coscienze, che hanno portato alla primavera araba. Gli artisti non smetteranno mai di esternare il loro punto di vista, come Mustapha Akrim sul diritto all’uguaglianza e alla libertà. Le creazioni esprimono il desiderio del cambiamento, sono degli statement che spingono a riflettere».

Quando è iniziato l’interesse per l’arte dei paesi Menasa, acronimo di Middle East, North Africa e South Asia?
«A partire dal 2000, diciamo che è dal 2006 che si è confermato un grande interesse. Ultimamente, ci sono diverse ricerche di dottorato sull’arte nordafricana e araba».
Il Mathaf ha solo dieci anni. Quali sono le sue linee guida?
«Gli artisti prima esponevano un po’ ovunque e non sempre il loro messaggio era capito. Il museo ha dato loro un valore, un dipartimento di ricerca, curator and research, che riscrive una storia dell’arte per decolonizzarla. Saloua Raouda Choucair, per esempio, è un’artista libanese che nel 1949 ha frequentato l’atelier di Fernand Léger, il suo lavoro non è mai stato riconosciuto dalla storia dell’arte occidentale, né in Libano.
A Doha, il museo, l’università, la scuola, fanno parte dei progetti trasformatori della società, ma soprattutto l’educazione attraverso l’arte è una strategia del Mathaf».

Emma Lavigne ha raccontato che visitando il Mathaf è rimasta sorpresa poiché già nell’ingresso del museo si pone l’accento sulla figura della donna, come uno statement. Ha concluso dicendo che lei dà molta visibilità alle artiste giovani come alle pioniere. Insomma, il suo è un programma engagé?
«Sì, assolutamente! Al Palais de Tokyo, ho portato due ritratti realizzati da Inji Efflatoun, una pittrice egiziana che militò a favore dei cambiamenti politico-sociali nell’Egitto degli anni Quaranta e Cinquanta. Uno dei lavori, del 1965, ritrae Ceza Nabarawi, una giornalista militante, fondatrice fra l’altro dell’Unione femminista egiziana. L’altra tela del 1985, Greeting to South Lebanon Bride, ritrae una sposa che stringe un fucile a sé, per parlarci di una donna che combatte per la sua libertà».

Alcune delle opere in mostra, dal Mathaf a Palais de Tokyo
Gli artisti qui presentati restituiscono uno sguardo incrociato sulle questioni socio-ambientali, il loro è un parlare chiaro e coraggioso, che libera le menti dai pregiudizi e stimola il dialogo. Il tema del diritto al lavoro con Faraj Daham che in Street Language (dittico, 2012) denuncia le condizioni precarie dei lavoratori migranti nei cantieri di costruzione nel Qatar. L’artista qatariano ritrae uno accanto all’altro dodici operai coperti da una maschera protettiva, usa la segnaletica da cantiere, carta vetrata e sabbia. I lavoratori stranieri nel Qatar rappresentano quasi l’80% della popolazione del paese, che nel 2019 era di circa 2,5 milioni di abitanti (n.d.r.).

Faraj Daham, Street Language, 2012, Diptych, mixed media on canvas, 180 x 400 cm, Exhibition view of « Our World is Burning », Palais de Tokyo (21.02 – 17.05.2020), Courtesy of Mathaf: Arab Museum of Modern Art (Doha), Photo: Marc Domage
Vi ricordate Silence of the sheep? Una performance controversa di Amal Kenawy (1974-2012), in cui una donna guidava, come una pastorella, una quindicina di uomini che a carponi traversavano le strade del Cairo. Dell’artista egiziana troviamo qui The silent multitudes (acciaio, serbatoi GPL, video, 2010), – la prima opera che trovate all’inizio di questo articolo – un’installazione che sfrutta lo stile architetturale dei quartieri poveri del Cairo, con pareti formate da oltre cento bombole a gas. Simbolo di un pericolo imminente, ci parla dell’urgenza ecologica.
John Akomfrah con Purple (2017), un titolo che guarda al porpora di Tiro, il colore del potere ottenuto da un mollusco, illustra qui lo sfruttamento della natura per scopi di prestigio. Sei schermi HD proiettano immagini d’archivio per una storia della modernità sotto l’angolo del Capitalocene.

Aslı Çavuşoğlu (1982, Istanbul) in The place of stone (affreschi su pannelli Aerolam, 2018), ripercorre la storia e gli scambi commerciali del lapislazzuli del sito minerario di Sar-e-Sang in Afghanistan. Un’opera che ci parla anche dei conflitti e dei giochi di potere in una zona ricchissima di giacimenti minerari, ma con una popolazione tra le più povere al mondo. Un percorso in cui le opere rimettono in questione i meccanismi politico-culturali e socio-economici odierni, e dove l’azione curatoriale ha saputo dare uno spazio di parola all’artista.

Questa mostra, infine esprime l’interesse del pubblico verso gli artisti di queste zone, testimoniando anche la presenza, sempre più massiccia, del mercato dell’arte nell’area Menasa. A causa delle misure di contenimento legate alla pandemia di Covid-19, la mostra è inaccessibile al pubblico. Potete leggere gli scritti dei curatori e ascoltare le testimonianze degli artisti su Radio appartement 22, sul sito del Palais de Tokyo.
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