12 maggio 2022

I nomi di dio e il colore dell’universo: una mostra tra spiritualità e scienza

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Vincenzo D’Argenio ci parla di “RICOGNIZIONE”, mostra personale all’intersezione tra spiritualità e scienza, in dialogo con lo spazio dell’associazione Il Cerchio, a Bologna

Vincenzo D'Argenio, #9CFFCE (dettaglio), tecnica mista, misure ambiente 2021-22

In occasione della settimana dell’arte a Bologna, dal 12 al 15 maggio 2022, Vincenzo D’Argenio (Benevento, 1982) presenta “RICOGNIZIONE”, mostra, con testo critico di Silvia Delevati, nata dalla collaborazione con Il Cerchio della Libia a via Libia, storica associazione che opera negli ambiti dell’accoglienza e della cultura con sede in via Libia 72/b. Mediante opere emerse dal connubio tra spiritualità e scienza, D’Argenio elabora una personale conversazione con la sala polifunzionale dell’associazione, luogo di passaggio quotidiano di migranti e volontari utilizzato prevalentemente per la ricreazione e la preghiera di ospiti di fede islamica. All’interno della sala saranno presenti lavori già realizzati, ma inediti, assieme ad altri, prodotti per l’occasione. A creare un ambiente avvolgente di raccoglimento e di riflessione, contribuiranno stimoli olfattivi e una sonorizzazione di Domenico Canino (Cellular).

 

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All’interno del comunicato stampa si spiega che sei rimasto da subito colpito dall’atmosfera della sala polifunzionale dell’associazione. Qual è stata la prima impressione che hai avuto nel visitare questo luogo? E in che modo ha influenzato la produzione della mostra?

«“RICOGNIZIONE” è un progetto che avevo da qualche tempo in programma di realizzare. La scoperta de Il Cerchio è stata del tutto casuale; dopo aver visto alcune immagini dei suoi interni mi era venuta l’idea di visitare lo spazio e provare a chiedere una collaborazione. Durante il sopralluogo, ho percepito un profondo senso di spiritualità nella sala polifunzionale, a mio parere l’ambiente più affascinante per la presenza di tappeti e divani caratteristici del mondo arabo. Essa mi ha richiamato alla memoria due artisti che adoro: Rothko (e la sua omonima Cappella a Houston) e Spalletti (Cappella di Villa Serena a Città Sant’Angelo). Dal momento che il progetto era già fortemente spirituale e simbolico, ho pensato di orientarmi in tale direzione.

Nello spazio, l’installazione a parete #9CFFCE è in relazione con i due elementi di un dittico. Il primo, Senza titolo A, al quale ho iniziato a lavorare nel 2018 con l’artista Sara Cancellieri, è composto da diciotto lamelle di terra cruda, di cui una rivestita in foglia oro, disposte su un piedistallo in ferro. Per la mostra ho completato il dittico con un secondo lavoro, Senza titolo B, composto da altrettanti livelli di carta carbone incorniciati, che generano un’opera indecifrabile e scura, se non fosse per uno strato in carta dorata. Durante la sua realizzazione ho pensato alla Kaʿba e alla Pietra Nera. Quest’opera dialoga inoltre con una croce situata sulla parete opposta prodotta da una livella laser».

Vincenzo D’Argenio, Senza titolo B, carta carbone, carta dorata, vetro, cornice, cm. 24 x 22, 2018-22

In mostra inserisci due suggestioni: il breve racconto di Arthur C. Clarke I nove miliardi di nomi di dio e il #9CFFCE, il Cosmic Turquoise, l’errato colore medio dell’universo. Queste paiono due indizi atti a suscitare possibili chiavi di lettura sulla relazione tra i due concetti che hanno ispirato le opere, spiritualità e scienza. In che modo si legano alla tua dimensione più personale e fungono da filo conduttore delle opere? Perché hai scelto di inserire la storia di un errore?

«Sono cresciuto con la nonna materna, una friulana cresciuta al sud che aveva una fede pragmatica spesso legata a consuetudini apprese dopo il suo arrivo nel Sannio, come tentare di scoprire con una manciata di orazioni, un piatto d’acqua e alcune gocce di olio d’oliva chi mi avesse fatto il malocchio quando avevo mal di testa. Luigia mi narrava anche storie di piante e animali, come la leggenda del pettirosso connessa alla Corona di Cristo. Insieme ai miei ricordi d’infanzia, evocano la mia visione anche le riflessioni dell’astronomo Carl Sagan sul Pale Blue Dot, la fotografia del pianeta terra scattata da una distanza oltre l’orbita di Nettuno, tra le più toccanti che io abbia mai letto: quando un uomo di scienza parla in quei termini non mi sembra molto lontano da un sacerdote durante l’omelia.

Ad ogni modo, #9CFFCE era già stato ideato per una call in cui mi ero domandato quale potesse essere il colore dell’universo. Dopo qualche rapida ricerca scoprii che si chiama Cosmic Latte, ma pensare all’immensità come a una tazza di cappuccino non mi ispirava granché. Ho poi letto che il primo colore medio (errato) del cosmo era stato il magnifico Cosmic Turquoise! Quale errore più bello?

I nove miliardi di nomi di dio è un racconto breve che mi ha fatto conoscere Aldo Brianzi, uno dei componenti di Fuochi Antichi che performeranno in occasione della Art City White Night (14 maggio) accompagnati dal live set di Domenico Canino. Le poche pagine mi hanno fatto riflettere profondamente e ho deciso di aggiungere nella sala alcune copie del racconto da collane di differenti case editrici ed edizioni. Il mio lavoro solitamente presenta una forte componente narrativa così, essendo “RICOGNIZIONE” un progetto più simbolico, vi ho voluto inserire suggestioni che potessero arricchire la mostra fornendo l’elemento mancante. Avendo in un certo senso eretto la mia chiesa temporanea (ride), mi piaceva che i visitatori potessero esperire un ambiente immersivo e trattenersi con una lettura».

Come le tue opere auspicano di relazionarsi non solo con un ambiente già fortemente caratterizzato ma anche con le consuetudini delle persone che lo vivono quotidianamente? E quali sono state e saranno le difficoltà?

«Le difficoltà non sono state poche e non lo saranno neppure durante i giorni di apertura dal momento che nella sala riposano e pregano gli ospiti de Il Cerchio. Per evitare di arrecare disturbo, i visitatori della mostra saranno invitati a indossare dei copri scarpe o a toglierle. Dal canto mio, ogni giorno smonterò e rimonterò parzialmente la mostra per non arrecare disagio. Tutte le volte che posso cerco di dialogare con spazi non deputati all’arte, anche se non nego che un white cube dà sempre una certa sicurezza rispetto ad altri luoghi in cui sei un ospite».

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